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Migranti, cittadini globali

Quella per il riconoscimento del voto amministrativo – e perché no – europeo, ai concittadini stranieri, è una grande battaglia di civiltà.

di Rodolfo Ricci *)

“Migranti, cittadini globali”: vi era in questa frase — con cui nel 2005 titolammo il secondo congresso della Federazione Italiana Emigrati e Immigrati (FIEI) — la registrazione di un mutamento epocale delle condizioni della cittadinanza effettiva delle persone nel processo di ricomposizione del capitalismo su scala globale. Ciò che chiamiamo oggi globalizzazione non è altro che il libero dispiegarsi fuori dei vincoli e dei confini nazionali dei processi di produzione e riproduzione del capitale multinazionale; allo stesso tempo, globalizzazione è il processo di mobilità accentuata delle persone attraverso i confini di regioni, paesi e continenti alla ricerca di condizioni migliori di vita; una mobilità richiesta ed incentivata dalle condizioni produttive e riproduttive del capitalismo, al punto che oggi, i sistemi economici di grandi paesi e continenti, come gli USA o l’Europa non potrebbero reggersi senza la forza lavoro di decine di milioni di immigrati.
Ciò è non solo evidente, ma riconosciuto ampiamente dai rappresentanti della grande impresa multinazionale e non; è confermato dai dati statistici per i quali oltre il 6% del PIL italiano deriva dall’apporto dei lavoratori migranti; per i quali sono oggi oltre 20 milioni i cittadini migranti sul suolo europeo, sono oltre 200 milioni i cittadini migranti sull’intero pianeta.
Cittadini migranti che attraverso le loro rimesse costituiscono l’unico concreto elemento di sviluppo dei rispettivi paesi di origine (circa 300 miliardi dollari all’anno di trasferimenti, cifra superiore di cento miliardi al complesso degli IDE, cioè degli investimenti totali provenienti dall’estero verso i paesi in via di sviluppo e i paesi poveri).
Le recenti dure proteste dei leader dei governi latino-americani contro la Direttiva “Ritorno” della UE, che ricordavano il tempo in cui tali paesi hanno accolto decine di milioni di migranti dall’Europa, costituiscono un elemento di chiarezza storica e al tempo stesso un monito a comprendere di cosa stiamo parlando: del futuro dei rapporti nord e sud, del destino stesso del pianeta.
Non può più essere che le merci fluttuino liberamente e le persone siano costrette dai vincoli unilaterali dei paesi del nord; queste condizioni non possono reggere.
Il fallimento dei negoziati di Doha sul commercio internazionale conferma, per altre vie, il raggiungimento di una soglia non più sopportabile.
A globalizzazione dei traffici finanziari e di merci deve corrispondere un nuovo ed adeguato complesso di diritti di cittadinanza per i lavoratori migranti e tutti coloro che si muovono attraverso i confini nazionali.
Il dibattito riaperto finalmente da Veltroni sul voto amministrativo agli immigrati residenti sul nostro territorio, dopo anni di investimento politico – da destra a sinistra – sulla “percezione della sicurezza”, deve costituire un'occasione di ampia mobilitazione per l’affermazione dei diritti di cittadinanza dei migranti e di riflessione sui destini globali e nazionali.
Vale la pena ricordare, a tal proposito, che la mobilità dentro i nostri confini (ovvero i flussi di migrazione interna) hanno nuovamente raggiunto i livelli più alti registrati negli anni ’60-’70: annualmente sono circa 270.000 gli italiani che lasciano le regioni del meridione e si stabiliscono nelle regioni del centro-nord per motivi di lavoro. Nel decennio sono stati oltre mezzo milione i siciliani che hanno lasciato l’isola prevalentemente verso il nord-est del paese.
A fronte di questi dati impressionanti, siamo chiusi dentro una assurda discussione sul federalismo fiscale come toccasana della situazione nazionale, quando è chiaro che il nord del paese continua ad assorbire risorse umane e a produrre ricchezza grazie anche all’enorme salasso di forza lavoro dal sud d’Italia e del mondo.
Allo stesso tempo, la spesa pubblica –in particolare quella sanitaria- del paese viene contenuta grazie all’apporto di oltre un milione di donne immigrate che si occupano di ciò di cui lo Stato non può o non vuole occuparsi: l’assistenza agli anziani e il lavoro riproduttivo nelle famiglie italiane.
Cosa si deve attendere per riconoscere i diritti basilari di partecipazione a questi milioni di concittadini stranieri ?
Quanto al voto, è bene sapere che paesi molto più avanzati del nostro hanno già da tempo riconosciuto il diritto di voto amministrativo a tutti gli stranieri o alle principali comunità etniche immigrate: tra questi la Svezia, la Danimarca, l’Olanda, la Norvegia, la Spagna, la stessa Inghilterra.

Il 15 Gennaio del 2003 il Parlamento Europeo approvò la risoluzione n. 136 nella quale si raccomandava a tutti gli Stati membri di concedere il voto amministrativo a tutti gli stranieri regolarmente residenti sui rispettivi territori da almeno tre anni e la cittadinanza ai residenti da almeno 5 anni. (Il Congresso FIEI approvò all’unanimità la proposta di introduzione del voto amministrativo e della cittadinanza agli stranieri secondo quanto previsto da questa risoluzione).
Fu sempre nel 2003, in ottobre, che Gianfranco Fini, allora Ministro degli Esteri, si espresse a favore del voto amministrativo durante un convegno al Cnel. Ma lo aveva già fatto il 6 luglio a San Paolo del Brasile, di fronte ad una nutrita platea di connazionali emigrati, paragonando le traversie dell’emigrazione italiana con quelle degli extracomunitari e riconoscendo al Brasile e agli altri paesi latino americani di non essere mai stati xenofobi o razzisti vero i nostri migranti.
“Volevamo braccia e sono arrivati uomini e donne”, l’espressione del grande scrittore svizzero Max Frisch attraversava l’Europa del nord negli anni ’70 ed ’80 e riguardava noi, l’integrazione e il riconoscimento dei diritti degli emigrati italiani e del sud Europa.
Così complicato ricostruire un civile confronto intorno a queste questioni, che non siano le assurde proposte dell’esame di lingua italiana, delle carte dei diritti e dei doveri, ecc. ecc.?
Perché questi esami e queste carte dovrebbero essere sostenuti e sottoscritte per ottenere il diritto di voto o la cittadinanza e non invece all’atto dell’assunzione di un rapporto di lavoro?
Basterebbe riflettere su questo per capire quanta ipocrisia e disonestà intellettuale inquina l’aria di questo nostro paese.
La battaglia politica per il riconoscimento del voto amministrativo – e perché no – europeo, ai concittadini stranieri, è una grande battaglia di civiltà e può costituire un elemento importante di chiarificazione dei destini dell’Italia.
In questo contesto le rappresentanze sociali ed istituzionali degli italiani all’estero possono svolgere una significativa funzione.

*) Segretario generale della FIEI

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