di Rodolfo Ricci *)
Due obiettivi per la battaglia d’autunno: ricontrattare gli interessi sul debito, abolire la ritenuta alla fonte per il lavoro dipendente.
1. Nella sua ultima discussa performance via audio in Piazza Navona Beppe Grillo ha ricordato una cosa nota, ma che viene continuamente fraintesa: l’Italia ha un debito pubblico pari a oltre 1.600 miliardi di Euro e gli italiani (non tutti ovviamente) pagano circa 80 miliardi di Euro annui di interessi su questo debito. Circa l’80% del debito è composto da titoli emessi dallo Stato, sia sul mercato interno (BOT, CTZ, CCT, BTP e BTP€I), sia sul mercato estero (per ca. il 55%: programmi Global, MTN e Carta commerciale).
Ogni anno la cosiddetta Legge Finanziaria ha il precipuo obiettivo (occultato da una sapiente regia politico-mediatica) di reperire i soldi per pagare questi interessi.
Il Ministro dell’economia Giulio Tremonti ha ricordato questo fatto qualche settimana fa nel suo intervento alla Camera, specificando che si tratta quantitativamente del “terzo debito pubblico al mondo, pur non essendo, l’Italia, il terzo paese per PIL prodotto, ma solo il settimo”.
(Noi avremmo aggiunto che invece continua ad essere settimo per spesa militare assoluta e che negli ultimi due anni essa è aumentata del 20%. La spesa militare pro-capite dell’Italia supera addirittura di 121 dollari quella tedesca: 568 USD a 447 USD!)
In un intervento nel suo blog, Grillo ipotizza tra il serio ed il faceto che questa somma prodottasi negli ultimi tre decenni (ma in particolare negli ultimi due), equivalga alla somma delle tangenti fluite tra il sistema politico e quello economico e viceversa, secondo una regola aurea che prevede di fare “una cresta” variabile fino al 30% , sui finanziamenti che vanno dal pubblico al privato.
Non so se la regola fosse così aurea o ferrea; ma forse c’è anche dell’altro e di più decisivo: è noto che l’Italia è il paese in cui la quota di PIL prodotta dall’economia sommersa è pari -secondo uno studio dell’FMI del 2002-, a circa il 27%. (10% circa per USA, 9% Svizzera). La percentuale di evasione fiscale complessiva è stimata annualmente intorno al 19-20% del PIL, cioè una cifra che si aggirava, secondo Padoa-Schioppa, intorno ai 270 miliardi di Euro nel 2006.
A fronte di queste cifre nelle quali ci dibattiamo da decenni, c’è da chiedersi, dopo tanto discutere, se non sia proprio questa la caratteristica specifica del Sistema Italia e il suo unico vero ”punto di forza”.
La fine della possibilità di svalutazione della Lira dopo l’ingresso nell’Euro, che costituiva il più potente strumento di politica economica italiana per garantire la concorrenza internazionale di un’economia scarsamente finanziarizzata (rispetto ad esempio a UK) e con una ancora forte presenza del settore produttivo industriale orientato fortemente all’export, ha reso più complessa la gestione della competitività internazionale del sistema, nonché quella delle politiche attive e di ridistribuzione.
Da allora, in particolare (ma l’operazione era strutturalmente iniziata negli anni ’80 con l’abolizione della scala mobile), il raggiungimento di adeguati livelli di competitività internazionale viene conseguito con la compressione di salari e stipendi, anche per il basso grado di produttività del sistema e di una competitività che si gioca prevalentemente in settori produttivi a relativa alta intensità di manodopera e parallelo basso grado di innovazione tecnologica rispetto ad altre economie sviluppate.
Ma ciò non sembra, da solo, sufficiente a garantire la permanenza di profitti adeguati per il capitalismo nazionale (fatto in gran parte di PMI); l’altra condizione è per l’appunto l’evasione fiscale, che consente potenzialmente (a parte il lavoro dipendente per il quale la trattenute fiscali vengono operate alla fonte) a tutte le altre figure produttive, in misura minore o maggiore, di raggiungere punti di equilibrio reddituale e di profitti ritenuti congrui e soddisfacenti.
Si potrebbe affermare che l’evasione fiscale ha in un certo senso, sostituito la pratica della svalutazione competitiva già in regime SME ed è proseguita alla grande dopo l’introduzione dell’Euro, con il medesimo obiettivo di abbassare i costi di produzione nella tenzone internazionale.
Ciò che non è possibile fare a causa della scarsa propensione all’innovazione tecnologica, lo si è fatto e lo si fa quindi a spese dello Stato e dei lavoratori: Pacco e Contropacco !
Si deve aggiungere, ma questo è in parte un altro discorso, un’altra caratteristica del sistema Italia costituito dall’economica criminale (mafie, camorre e ‘ndranghete varie) che fattura intorno ai 100 miliardi di Euro all’anno, vale a dire circa il 6% del PIL italiano e ne costituisce, ovviamente, parte integrante e “punta di eccellenza” nello scenario internazionale.
I grandi flussi finanziari e di ricomposizione del reddito nazionale avvenuti negli ultimi 20 anni sono facilmente riassumibili da queste cifre; si è trattato cioè di un enorme travaso di ricchezza nell’ordine di 3.000 ? 4.000 ? miliardi Euro che sono stati spostati dal lavoro dipendente e subalterno al capitale, dallo Stato al privato e, per quanto riguarda il sistema tangentizio, dallo Stato alla politica.
Al di là di considerazioni etiche si è trattato quindi del modo specifico in cui il capitalismo italiano ha potuto competere sul piano internazionale nella dimensione della globalizzazione, salvaguardando quella parte di capitale nazionale subalterno e relativamente arretrato la cui capacità di stare sul mercato poteva essere garantita solo dalla capacità di compressione del costo del lavoro (sia esso lavoro dipendente che, in parte, di quello che chiamiamo impropriamente lavoro autonomo, ma che in misura considerevole è lavoro dipendente “decontrattualizzato”). Dal punto di vista dell’impresa si trattava in effetti di comprimere tutto ciò che, in quanto lavoro, era ritenuto costo fisso; e, allo stesso tempo, di trasformare una parte consistente di tale costo fisso in costo variabile, attraverso la pratica dell’esternalizzazione e del decentramento produttivo che ha creato l’imponente massa di artigiani, micro imprenditori, partite IVA, COCOCO, COCOPRO, ecc.
Ciò ha comportato, in un certo senso, la costruzione, dentro i confini nazionali, di un pezzo di terzo mondo in cui il livello di salari, diritti, ecc. fosse analogo, anche se certamente non comparabile in linea assoluta con quello dei PVS, ma che disponesse allo stesso tempo, del valore aggiunto di un sistema infrastrutturale molto più avanzato di quello dei PVS.
Le recenti ipotesi di nuovi modelli di contratto su cui verte la discussione sul futuro delle relazioni industriali nel nostro paese, possono essere lette dentro la permanenza di questo scenario.
In questo pezzo di “terzo mondo” dentro i confini nazionali non hanno operato solo operai e lavoratori dipendenti, indigeni e immigrati, precari, sottopagati e con meno diritti, ma anche una infinità dei lavoratori “decontrattualizzati” autonomi, piccoli e piccolissimi imprenditori i quali nella lunga catena delle commesse al ribasso che, emanando dal vertice della grande impresa multinazionale, percorrono come in una via crucis, tutte le stazioni di un’intermediazione spregiudicata e cinica i cui effetti più visibili sono le migliaia di morti bianche che oramai non coinvolgono più esclusivamente i lavoratori dipendenti, ma anche piccoli e piccolissimi imprenditori il cui status di liberi operatori del mercato è sempre più spesso ed oggettivamente, un titolo del tutto posticcio.
2. Tuttavia questa analisi non appare ancora soddisfacentemente esaustiva, poiché si deve ricordare che negli ultimi 3 decenni il fenomeno della crescita dell’economia sommersa ed informale è riscontrabile anche in tutti gli altri paesi avanzati: nell’arco degli ultimi venti anni, esso è praticamente raddoppiato nei paesi OCSE, passando dal 10 al 20% medio (secondo una stima del FMI del 2002), con crescite rapidissime nel decennio 1990-2000, anche evidenziato in questo lasso di tempo in paesi come Francia (dal 9% al 15%), Germania (dall’11.7% al 16,3%), Spagna (dal 16% al 22,5%) e Italia (dal 22.7% al 27%), appunto.
Se il trend di crescita esponenziale dell’economia sommersa (e della conseguente parallela evasione fiscale) non è solo italiana, seppure in proporzioni differenti, c’è da dedurne che si tratta di un fenomeno strutturale della fase che abbiamo e stiamo attraversando. Questa fase è quella della cosiddetta globalizzazione imperniata, retta ed orientata dall’ideologia neoliberista.
Se ci siamo arrischiati a ipotizzare una stima del travaso di reddito da mondo del lavoro a capitale in Italia possiamo solo immaginare quali siano state le dimensioni del travaso di reddito a livello globale. Le contraddizioni e i conflitti che abbiamo di fronte, comprese secessioni, guerre, fame, povertà e miseria fuori e dentro i singoli paesi, ne sono un corollario.
Il modello applicato universalmente dal neoliberismo aveva già fornito un esempio lampante degli effetti economico-sociali che poteva produrre con le successive crisi che hanno coinvolto successivamente grandi paesi come Messico, Turchia, Argentina, passando per Russia e NICS asiatici negli anni ’90 fino al 2002. Oggi ne fornisce di ulteriori, addirittura di più ampli e impressionanti, a partire dal vertiginoso aumento dei prezzi alimentari che diventano, assieme al petrolio e alle altre materie prime, i beni sostitutivi su cui scatenare, senza alcun ritegno, le giostre degli strumenti derivati dopo il crollo dei mutui sub-prime.
La disponibilità di enormi capitali nelle mani dei grandi istituti finanziari e dell’impresa multinazionale non si è tradotta in questo trentennio in corrispondenti investimenti globali, ma piuttosto è stata giocata nelle transazioni finanziarie e borsistiche sui nuovi strumenti di investimento “derivati”, da una parte, e in consumi di beni di lusso, dall’altra, cosa che ha fatto affermare a diversi economisti che, con l’approccio neoliberista, viene minato ed intaccato alla radice il meccanismo classico dell’accumulazione capitalistica, secondo cui il capitale, per riprodursi, deve trasformarsi in investimenti produttivi e in beni di consumo di massa. Il punto di equilibrio del capitalismo (e quindi del mercato) è solo nell’equilibrio di queste variabili. Fuori di questo punto di equilibrio, il capitalismo deve essere salvato dallo Stato, cosa che in effetti sta accadendo negli ultimi mesi con le enormi iniezioni di liquidità delle grandi banche centrali.
Se gli investimenti produttivi si sono invece percentualmente ridotti e il consumo dei lavoratori e delle famiglie, comprese le classi medie, si è anche decisamente contratto, restano -e in effetti risultano aumentati- solo gli investimenti in titoli e il consumo delle classi elevate.
In questo è consistita e consiste la lotta di classe di fine ed inizio millennio.
3. Abbiamo visto che tra i paesi avanzati la posizione italiana ha una sua originalità: seppure i trends nazionali sono del tutto analoghi a quelli degli altri paesi, i modi e la qualità con cui essi si attuano nel nostro paese appaiono più radicali ed ovviamente legati alla specifica composizione interna del capitale e alla sua stratificazione sociale e territoriale, ma anche alla sua specifica cultura sociale e politica.
Dinamiche e squilibri nord-sud, relativamente basso livello tecnologico della composizione organica del capitale, forte presenza di PMI e dimensione ridotta delle singole imprese, livelli scadenti di scolarizzazione e formazione, scarsa efficienza delle Pubblica Amministrazione, ecc., forti egemonie mediatico-culturali (Media privati e Vaticano), pervasività dell’economia criminale, autoreferenzialità della politica fino al consolidamento della Casta, corruzione accentuata, debolezza del sistema giudiziario, ecc., fanno dell’Italia un paese del tutto particolare nello scenario dei paesi avanzati neoliberisti.
La capacità concorrenziale del sistema paese nelle dinamiche competitive con gli altri sistemi-paese ne risulta, nel suo insieme, fortemente indebolita.
Si potrebbe dire, in questo senso, che la percentuale di controllo (o di azionariato) del sistema globale neoliberista da parte dell’Italia è al di sotto di quanto potenzialmente possibile ove il sistema paese funzionasse a dovere. Ma ciò non toglie il fatto che esso produca delle punte di “eccellenza” globali, con le sue banche, le multinazionali dell’energia, le sue oligarchie speculative, i suoi apparati criminali, ecc., in grado di condividere pienamente le vette della competitività globale.
La permanenza nei vertici internazionali di questi poteri nostrani non particolarmente avanzati quanto ad efficacia produttiva, riproduttiva ed organizzativa, può tuttavia sussistere in funzione della loro capacità di penetrazione e di orientamento delle leadership politico-culturali, quindi dello Stato, e di controllo mediatico delle masse dei cittadini, che consenta loro la perpetuazione di elevati livelli di sfruttamento del lavoro, di contrazione salariale e del sistema dei diritti, più e più a fondo di quanto avvenga in sistemi-paese meno sperequati, come quelli nord europei.
Questo è stato (ed è) l’obiettivo perseguito negli ultimi trenta anni dal complesso economico-politico-mediatico-culturale, che è riuscito a ricostruire una sua potente, diffusa e trasversale egemonia dopo il decennio di protagonismo sociale 1968-1978.
L’egemonia globale neoliberista per convenzione di emanazione USA, ma non solo, si è attuata, in Italia, nell’accordo e scambio geostrategico con tali poteri. L’aumentato ruolo dell’Italia come contractor internazionale di missioni e presenza militare nel mondo per conto dei nuovi assetti strategici, costituisce una novità (perseguita da destra e da “sinistra”) che rientra in questo patto.
E’ per tutto ciò che la situazione italiana manifesta oggi, dal punto di vista della riflessione e dell’azione politica, caratteri di difficile permeabilità analitica e di lettura politica coerente, oltrechè di permanenti processi aggregativi e disgregativi in misura molto maggiore rispetto ad altre situazioni nazionali in cui la “purezza” neoliberista si dispiega in modo più lineare e leggibile.
Ciò non inficia un altro trend comune del neoliberismo mondiale che è consistito e consiste nella acquisizione degli apparati politico-sociali delle sinistre storiche dentro l’orbita del “pensiero unico” (Labour in UK, PD in Italia), garantendo loro una ipotetica funzione di gestione dello “spazio nazionale / sistema paese”, obiettivamente e strutturalmente limitato ad alcuni settori, in una prospettiva neonazionalistica di ricerca di maggiore efficienza di sistema e in una ottica –del tutto disorientante- di reciproca competizione tra sistemi-paese dentro i paletti neoliberisti, i quali per loro natura e come il termine stesso indica, sono in linea di massima disinteressati ai confini nazionali se non per la funzione di gendarme internazionale del sistema che alcuni singoli paesi debbono assicurare e per la funzione di riproduzione ideologica e controllo culturale che invece, tutti, ognuno secondo le proprie possibilità, debbono assolvere.
In questa prospettiva è giocoforza che i sistemi di welfare e la spesa pubblica nazionale debbano essere compressi e ridotti poiché tolgono risorse al “libero mercato”: tutto ciò che è privatizzabile con vantaggio (dai fondi previdenziali, ai servizi municipali, ai beni comuni), deve essere effettivamente e in progressiva misura privatizzato, poiché ciò solo garantisce l’afflusso di nuovi capitali da immettere nel sistema circolatorio del neoliberismo, come unica condizione della sua riproduzione che è sempre più sganciata dall’effettiva capacità di produrre valore!
4. Tuttavia le “resistenze” italiane a questo processo di trasferimento dello Stato in mani private continuano ad essere consistenti, sia per la specificità degli equilibrii imperfetti tra i vari poteri forti citati che pur costituendo sistema, dentro di esso si contrastano vicendevolmente, sia per una storica cultura di critica radicale degli squilibrii nazionali che pur nell’inquinamento ideale e culturale operato dai media, continua a persistere trovando esiti e sbocchi certamente contraddittori quanto imprevisti sul piano politico e che sono in grado di produrre fenomeni sociali e politici che possono variare dalla Lega Nord, ai movimenti per le autonomie che riciclano mai sopiti, quanto antistorici e surrettizi sentimenti identitari, o, sul fronte della partecipazione di base, dai movimenti di resistenza territoriale alle scelte del neoliberismo continentale (No Tav) e alla sua necessità di acquisire ulteriore spazi per la funzione di controllo militare dell’area mediterranea e mediorientale (No Dal Molin), ai girotondi e ai loro portavoce dello spettacolo che insistono sull’aspetto di controllo mediatico-culturale e del tentativo di riduzione dell’autonomia del sistema giudiziario, alla cosiddetta antipolitica del “que se vajan todos” contro la trasversale Casta, a pezzi di sindacato, ai movimenti di resistenza sociale antagonisti e contro la globalizzazione neoliberista.
Tutto ciò conferma il permanere di un forte potenziale critico del paese, che tuttavia risulta frammentato e dis-orientato da un uso spregiudicato dei media e dai tentativi di ricomposizione sociale strumentale operata dai poteri forti attraverso il massaggio delle leadership politiche e in accordo con il neoliberismo mondiale.
Ad oggi questa operazione di mediazione e di ricomposizione politica è riuscita meglio alla destra con Berlusconi e il suo canovaccio di Rinascita nazionale, attraverso un patto e uno scambio che ha valorizzato come compatibili e necessitate, libertà d’impresa ed evasione fiscale, economia sommersa e tentazioni autonomistiche, spesa sociale e riduzione del welfare, politiche di sicurezza e xenofobia razzista, ecc.
Molto meno al “partito delle tasse” (il centrosinistra) che ha riproposto una opzione lineare e rigorosa di governo conservatore ligio al dettato di Maastricht che tentava di compendiare privatizzazioni, più mercato e meno Stato, riduzione dell’evasione, “modernizzazione” del sistema di Welfare per l’ignoto futuro delle future generazioni, riducendo l’attuale in relazione alle sue compatibilità di finanziamento a venire, controllo e riduzione della spesa pubblica per rientrare nei famosi parametri, riduzione del debito, incentivazione della produttività dell’impresa attraverso il cuneo fiscale, ecc..
Entrambe le soluzioni e gli approcci, dopo le elezioni di Aprile 2008, sembrano tuttavia essere venute al capolinea. Le notevoli differenze di lettura e di impostazione che si avvertono oggi dentro gli stessi schieramenti politici, per nulla omogenei, e che rappresentano ormai trasversalmente le classi o quel che ne rimane, manifesteranno a breve termine tutte le loro incompatibilità.
In nessuna delle stagioni di governo di centro destra e di centro sinistra si è infatti ridistribuito qualcosa di significativo; negli ultimi quindici anni, il potere di acquisto dei salari si è ridotto di quasi il 40%. Oggi i salari italiani sono il 30% al di sotto della media europea. Il tasso attuale di inflazione (4% medio, ma molto più alta per la classi povere che si trovano costrette a ridurre l’acquisto di beni alimentari di prima necessità aumentate del 10-15% in un solo anno), porterà nell’arco di due anni il poter di acquisto dei lavoratori ben sotto il 50% di quello dell’inizio degli anni ‘90.
L’opzione del federalismo fiscale sostenuto da venti anni dalla Lega e con adepti importanti nel PD, la promessa bipartisan di riduzione delle tasse, i recenti approcci no-global e di tassazione mirata (più che altro partita di giro) dei petrolieri di Tremonti, sono destinati a non acquisire il consenso politico necessario alla loro approvazione, in un contesto reso ulteriormente pericolante dall’arrivo della grande crisi economica che è la crisi storica del neoliberismo.
In effetti c’era e c’è ben poco da ridistribuire; il reddito nazionale infatti, al netto di un’evasione annua di oltre 250 miliardi di Euro, è inferiore di 80 miliardi di Euro a quello che sarebbe disponibile senza l’erosione degli interessi sul debito. (Come accennato l’indebitamento pubblico avviene sul mercato estero e su quello interno; su quest’ultimo versante, accade, curiosamente, che una quota consistente di titoli di stato vengano acquistati proprio dalla componente degli evasori (grandi, medi e piccoli) utilizzando le somme evase al fisco, con lo strabiliante risultato che lo Stato –i cittadini lavoratori- ci rimette due volte: prima non incassando la quota di tasse legittima, poi, dovendo anche pagarci sopra gli interessi (tassati solo al 12%, diversamente dal 20% applicato in Europa). Pacco, contropacco e contropaccotto!)
La riduzione dei mercati di sbocco internazionale per le nostre merci che si manifesterà in tutta la sua evidenza nei prossimi mesi e nel prossimo anno, la crescita dell’inflazione e le politiche di contenimento operate dalla BCE con l’aumento dei tassi, lo sconvolgimento delle ragioni di scambio tra Paesi avanzati e PVS produttori di materie prime a favore di questi ultimi, renderanno molto critica la situazione.
Le recenti avvisaglie di grandi alleanze si ripropongono pur con nuove variabili. Ma sono sempre meno credibili, soprattutto a sinistra, dove lo zoccolo duro del PD comincia a manifestare sofferenza e distacco da una prospettiva e da una gestione che manifesta tutta la sua insufficienza e il suo carattere essenzialmente mediatico ed insipido. Prova ne è che la famosa manifestazione romana del No Cav 2, pur nell’oscuramento e falsificazione generalizzata dei media, ha riscontrato un gradimento di oltre il 30% dell’elettorato del centro sinistra, secondo il guru dei sondaggi Renato Mannheimer.
Le soluzioni proposte dai due schieramenti paiono entrambe già fallite essenzialmente per la manifestata incapacità di effettiva ridistribuzione dei redditi da 15 anni a questa parte a causa di vincoli strutturali di un’economia in declino e che si regge in gran parte sul sommerso e dei vincoli esterni relativi al debito.
5. La questione può così essere riassunta: o l’aumento di disponibilità di risorse attraverso la riduzione massiccia dell’evasione fiscale è compatibile con la stessa sopravvivenza di una struttura produttiva del paese (che però sappiamo derivare per il 27% del PIL dal sommerso) e con la sua capacità di stare sul mercato globale, e quindi costituisce un obiettivo realistico da attuare prioritariamente, oppure, se ciò non è praticabile o lo è solo in piccola parte, bisogna parallelamente andare ad una ricontrattazione del debito che liberi almeno una quota di risorse degli 80 miliardi di interesse, da destinare ai consumi interni, agli investimenti e al welfare.
Mentre la prima soluzione non mette in crisi il dogma del libero mercato, la seconda sì; per questo pare più difficile da affermare o solo da pensare. Ma, come già si è visto, il mercato non è libero, né autosufficiente: fiumi di miliardi di Euro e di Dollari dei risparmiatori corrono da mesi dalle banche centrali a sostenere la rete criminale della finanza mondiale perché è su di essa che si regge tutto l’almanacco del neo-liberismo. Ed inoltre, abbiamo visto che il crescere dell’economica sommersa e quindi di un’alta evasione fiscale è stato ed è un fenomeno comune ai paesi industrializzati e in buona misura incentivato dal modello di globalizzazione neoliberista.
Una politica centrata sul recupero di risorse attraverso la riduzione dell’evasione fiscale risulta poi ulteriormente invendibile sul piano del consenso, in un momento di accentuata e crescente crisi. Al contrario è più difficilmente contrastabile una proposta che rimetta almeno su un piano di pari condizioni fiscali lavoro salariato e dipendente e lavoro autonomo e d’impresa.
Terminata la stagione balneare dei congressi delle sinistre extraparlamentari, le cui dinamiche e contenuti coinvolgono alcune migliaia di cittadini in un paesi di 60 milioni di abitanti, qualcuno a sinistra dovrà occuparsi della materia. Né entusiasma la tenzone tra tasso di inflazione programmata (1,7% per il Governo) e di inflazione reale (3,8-4,2% secondo l’Istat) in cui sono stazionano i vertici sindacali, nel momento in cui crollano di ben oltre il 10% i consumi di pane, pasta, indumenti fino a quelli di bibite e gelati nella torrida estate. Altro che detassazione degli straordinari!
A meno che non si voglia che i temi dell’opposizione sociale non trovino il maggiore interprete nazionale in Giulio Tremonti, secondo una tentazione classica dell’autoritarismo che si costruisce la propria ala destra e sinistra, dovremmo impegnarci a costruire un fronte sociale e politico intorno a due obiettivi: uno, la ricontrattazione degli interessi sul debito, prima che sia troppo tardi. Argentina docet in tempi, dinamiche ed effetti. Due, la cancellazione dell’imposta alla fonte per il lavoro dipendente, poiché è costituzionalmente stabilito che tutti i cittadini debbano disporre di pari condizioni ed opportunità anche su un sistema di detrazioni e di tempistica del versamento delle imposte sul reddito del tutto analogo a quello utilizzato da lavoro autonomo e impresa.
Ai timorosi e alle Cassandre concentrati su cosa di negativo ne possa derivare, bisogna ricordare quello che è già accaduto: l’attuale sistema ha infatti consentito che il lavoro dipendente abbia in maniera precipua finanziato lo Stato Sociale anche per la parte di popolazione nazionale che ha evaso e, allo stesso tempo, abbia finanziato l’esborso di enormi somme di interessi andati in buona parte nelle tasche di evasori autoctoni e istituti finanziari internazionali. Il lavoro dipendente, quello precario e sottopagato, il lavoro autonomo “de-salarizzato” hanno cioè finanziato loro malgrado l’ascesa e il consolidamento del neoliberismo da una parte e hanno puntellato, dall’altra, un sistema economico nazionale che, oggi è evidente, fa acqua da tutte le parti.
Se non è ancora ora di invertire la direzione di questi flussi, è almeno il momento di bloccarli. Poi si ridiscuta pure di un moderno e sostenibile welfare, di nuove relazioni industriali, di federalismo, eccetera eccetera.
*) Segretario nazionale Federazione Italiana Emigrazione e Immigrazione (Filef-FIEI)