Questa recessione e’ alimentata da tre crisi sovrapposte. Non sara’ breve.

di Roberto Marchesi (*) – Dallas, Texas

Tutto il mondo occidentale industrializzato sta di questi tempi attraversando uno dei momenti più difficili della sua storia economica. La crisi dei “subprime mortgages” esplosa circa un anno fa negli USA si è rapidamente propagata alle economie di tutto il mondo, ma si è ben presto capito che, nonostante il fenomeno dei mutui subprime apparisse molto serio, esso è stato solo il fattore scatenante di una crisi già da tempo latente: quella del mercato immobiliare USA.
Nelle economie a libero mercato le crisi (o le recessioni) sono generalmente un fattore ciclico, originate appunto dall'andamento ciclico delle economie, però non tutte le crisi sono uguali, ci sono anche quelle originate da fattori straordinari. Ma le crisi più serie, quelle che sfociano in recessione, non sono mai determinate dai soli fattori straordinari. Nemmeno il gravissimo fatto terroristico dell'11 settembre 2001 ha potuto, da solo, scatenare una recessione. Infatti, nonostante i gravissimi danni inferti alla popolazione e alla economia degli Stati Uniti, quella crisi durò solo poche settimane e la recessione di quegli anni (tra il 2000 e il 2001) fu originata dalla crisi del comparto tecnologico, non dall'attacco al World Trade Center.
Sono sempre le situazioni latenti a provocare i guai maggiori, quando esplodono, e naturalmente più tempo ci impiega il settore interessato a entrare nella fase correttiva e più profonda sarà la durata e la portata della correzione. E quando la crisi colpisce gravemente settori vitali dell'economia di un paese, è quasi certo che la crisi diventerà vera e propria recessione, soprattutto se la crisi parte nei paesi cardine dell'economia globale e non è affrontata subito con misure adeguate.
Ma può anche succedere che più crisi colpiscano contemporaneamente le principali economie del globo, allora la situazione si fa più difficile, più profonda, scavalca i confini nazionali, contagia tutte le economie mondiali, produce una recessione che può diventare vera e propria depressione economica.
Nella recessione attuale è già possibile notare tutti i sintomi di questo fenomeno, ovvero l'accavallarsi di più crisi che si sovrappongono a quella originaria (i mutui americani) e dà origine ad una fase depressiva delle economie molto estesa e molto problematica.
Vediamo un po più in dettaglio cosa sta accadendo e come è potuto avvenire.

La crisi dei Mutui
Quello che è successo nel comparto dei mutui USA ha veramente dell' incredibile per la leggerezza con la quale sono stati assegnati ed erogati i mutui, dati in pratica a chiunque fosse disposto a firmare, concessi in un'orgia di accondiscendenza generale alla quale hanno follemente partecipato tutte le parti in causa: mediatori, banche, finanziarie, mutuatari, amministratori pubblici, politici. E proprio quando questa orgia era al suo apogeo è partita la crisi del comparto immobiliare a rendere tutto più difficile.
Eppure nemmeno questi due fattori concomitanti (crisi del mercato immobiliare e crisi dei mutui) riescono a spiegare, da soli, la gravità della attuale crisi, che è globale.
Certo, le banche e le finanziarie USA hanno distribuito mutui come fossero caramelle, lucrando per anni sulle sostanziose commissioni e sugli interessi che i mutui fruttavano, ma quando, a partire dall'agosto 2007, è apparso evidente che, anche per effetto del costante aumento dei tassi attuato dalla Federal Reserve (mirante al contenimento dell'inflazione), sempre più gente non riusciva a pagare i mutui sottoscritti (oggi sono almeno due milioni i mutui a rischio di insolvenza o già terminati anticipatamente), le banche hanno cominciato a capire che grosse perdite si profilavano all'orizzonte. Perchè un conto è azionare la procedura del “foreclosure” (lo sfratto forzoso) per poche centinaia o migliaia di case, altro conto è se questo deve essere fatto per centinaia di migliaia, o milioni di case, oltretutto in un mercato immobiliare entrato in crisi.
Per fare un rapido calcolo mettiamo che la banca abbia finanziato al 100% una casa del valore di centomila dollari (ma in molti casi hanno finanziato persino di più, andando a coprire anche le spese accessorie al mutuo e all'intermediario) e che il mercato, al momento del recupero forzoso, sia già sceso del 10%. Considerando che una vendita in “foreclosure” non viene mai fatta al valore di mercato, ma necessariamente a prezzi di realizzo inferiori almeno del 10 – 20%, ciò significa che su quella casa, recuperata infliggendo una terribile umiliazione al suo temporaneo possessore (buttato fuori casa in poche settimane senza tanti complimenti) la banca potrà recuperare al massimo 70 o 80 mila dollari, perdendo su ogni singola operazione almeno 20 o 30 mila dollari (ma anche di più se ha finanziato più del 100%). Ma dovremmo considerare anche che, nelle zone dove più ha colpito la crisi del mercato immobiliare, la riduzione è stata anche molto al di sopra del 10%, in certi casi la svalutazione si è spinta fin oltre il 30%. Dopodichè moltiplicando la perdita di 20.000 dollari (in una media ottimistica) per due milioni di case, ne risulta una perdita previsionale complessiva di 40 miliardi di dollari che crea ovviamente qualche grattacapo ai banchieri, soprattutto quelli delle banche più esposte in questo settore. (Infatti le più esposte sono già “saltate”, vendute a banche più grosse, o fallite).
Ma questa è solo un faccia della medaglia, l'altra è anche peggio. Infatti, le banche non perdono solo sugli “impieghi” del denaro prestato, esse possono perdere anche (e talvolta di più) sulla raccolta del denaro che usano per finanziare i mutui. E qui si spiega anche come mai una crisi del mercato immobiliare USA, quindi nazionale, sia arrivata a contagiare i mercati finanziari di tutto il mondo.
I soldi necessari a finanziare la concessione dei mutui vengono raccolti dalle banche mediante la vendita sul mercato di titoli specifici (obbligazioni e derivati simili). Gli acquirenti di questi titoli sono i risparmiatori (privati o Fondi di investimento) attratti dal buon rendimento e dal fatto che il titolo è considerato sicuro, essendo direttamente collegato ad un bene reale (la casa) messo a garanzia del titolo stesso. In questo modo un bene come la casa, ovvero un bene immobile che per sua natura non è facilmente liquidabile, lo diventa attraverso i mutui e mediante questi titoli che procurano la liquidità per finanziarli. È la cosiddetta “cartolarizzazione” dei beni.
Le cose sono andate a gonfie vele fino all'inverno 2006-2007, poi il meccanismo dei facili guadagni si è inceppato, perchè il costante aumento dei tassi (che dall'1% della primavera 2004 sono arrivati gradualmente al 5.25% della primavera 2007) insieme alla pratica molto diffusa di applicare sui mutui dei tassi d'ingresso, validi cioè solo per i primi 6-18 mesi, hanno provocato il default (il mancato pagamento) da parte di un numero sempre più alto di mutuatari, entrati in brevissimo tempo nelle procedure di “foreclosure” delle banche.
Questo naturalmente non è passato inosservato ai gestori dei fondi, già sul chi vive a causa delle inflazionate quotazioni del mercato immobiliare, e quando questi investitori hanno capito che quei titoli non potevano più coprire l'importo nominale dell'obbligazione (circa agosto 2007) è cominciato il sell-off, la svendita in massa dei titoli stessi (leagati ai subprime), che nessuno da allora vuole più se non a prezzi stracciati, e che le banche quindi in massima parte si sono di nuovo ritrovate in portafoglio, ma a valore effettivo ben al di sotto del valore nominale.
Siccome le banche sono obbligate a fare periodicamente (trimestralmente le banche quotate in borsa, almeno una volta l'anno in occasione dei bilanci, le altre) la valorizzazione in termini attuali dei titoli in portafoglio e la valutazione in termini prudenziali dei crediti esigibili (i mutui di cui si è detto, che hanno dovuto essere devalorizzati anche del 30-40%), diventa facilmente intuibile come ciò che è successo a partire dall'estate 2007 abbia aperto voragini nei bilanci delle banche, alcune delle quali, per effetto della sottocapitalizzazione o a causa della crisi di liquidità agli sportelli, sono arrivate al fallimento.
Tutto questo tuttavia non spiega ancora la gravità della crisi che ormai ha contagiato anche settori poco affini a quello immobiliare e paesi con economie poco dipendenti da quella americana.

La crisi del settore energetico
Alla crisi dei mutui americani, infatti, che potremmo senz'altro considerare, sia pure nella sua gravità e ampiezza, un fenomeno ciclico, si è sommata la crisi del settore energetico, iniziata nella sua fase di maggiore virulenza quasi contemporaneamente a quella dei mutui e del comparto immobiliare americano.
Ormai è noto da molti anni che il comparto energetico, del quale il petrolio è al momento il principale fornitore di materia prima, è costantemente in crisi. Perchè da una parte vi è la continua crescita del consumo di petrolio, che viene utilizzato non solo per la produzione di benzina e gasolio ma anche per una infinità di altri utilizzi (come la produzione di materie plastiche, ecc.), e dall'altra vi è la consapevolezza che il petrolio è una materia prima tendente ad esaurirsi abbastanza rapidamente (chi dice in venti, chi dice in cinquanta anni). Perciò, nonostante la massiccia spesa a livello globale in investimenti finalizzati alla ricerca di nuovi giacimenti, la tendenza non può comunque essere diversa, salvo brevi periodi di calma o di turbolenza, da quella di una crescita costante del prezzo di questo minerale (almeno finchè si continuerà ad usare questo minerale per il riscaldamento delle case e l'alimentazione dei motori).
L'impatto di questa crisi su tutte le economie, sia dei paesi industrializzati che di quelli emergenti, è stato addirittura più grave ed evidente che quello dei mutui, dato che il prezzo del petrolio è addirittura triplicato in poco più di due anni, e ciò ha naturalmente provocato un autentico terremoto finanziario perchè ha generato automaticamente il forte incremento di tutti i costi delle merci e dei servizi. Un impatto che per il suo effetto di riflesso su tutto il mercato al consumo è stato addirittura destabilizzante degli equilibri interni di tutte le economie dei paesi industrializzati.
Naturalmente le economie a soffrirne di più sono state quelle dei paesi maggiormente dipendenti dall'estero per il proprio fabbisogno energetico. E tra queste c'è sorprendentemente anche l'economia americana, malgovernata (per gli incredibili ritardi nel prendere provvedimenti utili) e contemporaneamente colpita dalla crisi dei mutui, dai crolli nelle borse, e da un dollaro che ha perso in sei anni tutto il suo fascino e quasi tutto il suo potere.
Ma c'è anche l'economia italiana, che non avendo petrolio nel proprio sottosuolo soffre tradizionalmente la sua dipendenza dall'estero per il fabbisogno energetico.
In questa fase di duplice crisi l'economia italiana ha subìto di meno (degli USA) la crisi dei mutui, avendo un mercato immobiliare e dei mutui più in ordine, ma ha sofferto di riflesso maggiormente la crisi delle borse e la presenza costante di un deficit statale da capogiro che impedisce cronicamente l'avvio di efficaci politiche di sviluppo.
L'aumento generalizzato dei prezzi causato dalla crisi energetica genera ovunque contemporaneamente due fattori molto negativi per l'economia: l'inflazione e la sfiducia dei consumatori (dando luogo alla tanto temuta “stagflazione”).
Naturalmente i consumatori maggiormente colpiti sono quelli a reddito fisso, che non possono scaricare su altri soggetti gli aumenti dei costi. Tuttavia anche le altre fasce del reddito soffrono di riflesso, poichè la contrazione dei consumi si traduce generalmente in minor lavoro, e quindi minor guadagno anche per loro.

La globalizzazione
E infine c'è il fattore “globalizzazione”, che è un fenomeno troppo ampio per poter essere trattato nelle poche righe di un articolo, tuttavia, giusto per dare un' idea, diciamo che di questo fenomeno gli elementi che creano maggior disturbo sulle economie dei paesi industrializzati sono l'offerta di lavoro (anche intellettuale) a basso costo effettuata dai paesi emergenti e il crescente fabbisogno di energia di questi ultimi al fine di sostenere lo sviluppo della produzione. L'aumento della domanda collegato a questo fabbisogno sta già dando notevole disturbo sul mercato del petrolio, poichè ne fa aumentare il prezzo e, in un momento di crisi acuta come questa, e con mercati lasciati liberi di speculare a piacimento su questo bene primario, la tensione è diventata estrema, dando qualche segnale di moderazione solo in seguito al calo dei consumi. (L'aumento della domanda non basta però da solo a giustificare la triplicazione del prezzo del petrolio in due-tre anni. È chiaro che il ruolo di principale attore in questa crisi è dato dalla enorme speculazione operante nelle borse, che ha fatto più ricco qualcuno e più poveri tutti gli altri).
L'altro fattore della globalizzazione incidente sulle economie occidentali, ovvero l'offerta di lavoro a basso costo, ha trovato invece in questi anni entusiastica accoglienza tra i produttori di merci dei paesi ricchi, dato che il grande differenziale di costo poteva coprire agevolmente anche il costo del trasporto delle merci. Ma i guadagni conseguiti dalle imprese hanno portato beneficio in patria solo agli imprenditori e agli investitori (grazie agli utili conseguiti), determinando per contro contemporaneamente una lenta ma sensibile riduzione della spesa sul mercato al consumo interno. Infatti il lavoratore salariato dell'impresa, che prima lavorava in patria e spendeva in patria, ora lavora all'estero e spende all'estero, e porta beneficio a quei mercati invece che a quello di casa dell'impresa. Alcuni economisti obbiettano che il fenomeno del'outsourcing non ha generato disoccupazione (vero solo fino a qualche mese fa), quindi non ha influito sul mercato al consumo. Ma ad una analisi più attenta si può agevolmente replicare che sostituire due monete d'oro con due d'argento dà come risultato sempre due monete, ma il valore intrinseco è molto diverso. Così se si sostituisce il lavoratore di casa con uno all'estero, l'azienda risparmia e per un pò diventa più competitiva (finchè l'azienda concorrente non passa anch'essa all'outsourcing), ma il lavoratore di casa licenziato si dovrà trovare un altro lavoro. Quando questo accade in periodo di crisi è probabile che non lo trovi, e quindi fa aumentare l'indice della disoccupazione, (fenomeno che si sta verificando a ripetizione negli ultimi mesi negli USA) ma anche se lo trova e non fa aumentare quell'indice, probabilmente troverà un lavoro meno pagato, perciò quel lavoratore avrà meno denaro da spendere nel mercato al consumo interno.
Sorge quindi concretamente il dubbio che il mercato al consumo interno sia stato irresponsabilmente immolato sull'altare dalla politica suicida dell'outsourcing selvaggio.
Il problema del consumo interno è primario nelle libere economie, e infatti il Governo e il Congresso degli Stati Uniti stanno cercando di rivitalizzare un poco i consumi interni regalando proprio in questi mesi denaro a pioggia a quasi tutti i contribuenti. L'importo messo a disposizione è cospicuo: più di 100 miliardi di dollari complessivamente. E il regalo è sostanzioso: suddiviso in checks da 300 a 1.200 dollari (a seconda del nucleo famigliare), già erogati quasi interamente. Malauguratamente dai primi segnali non sembra però che la manovra abbia ottenuto il risultato sperato. Il mercato al consumo è sempre fiacco. Il cavallo beve, ma l'acqua non basta, e già i politici parlano di fare un'altra manovra analoga forse già entro l'anno. Inutile dire che provvedimenti di questo tipo sono molto graditi alla popolazione, ma sulla reale efficacia è lecito dubitare. Inoltre non è nemmeno da ignorare il fatto che questa spesa và direttamente ad appesantire il già pesante fardello del deficit statale USA, che questa primavera era già allo sconfortante livello di 9.200 miliardi di dollari, e che nel 2008 si aggrava di altri 389/mld., più altri 482/mld. di incremento calcolati nel budget 2009. Il deficit di bilancio degli USA cresce quindi mediamente al ritmo di circa un miliardo di dollari al giorno, che tradotto in debito pro-capite lascia agli sconsolati cittadini americani, bambini compresi, la indesiderata cambiale di circa 30.000 dollari a testa.
Il fenomeno della globalizzazione è nel suo insieme molto più serio di quello che sembra abbiano recepito i politici e/o gli economisti al loro servizio. I paesi industrializzati hanno dato ai paesi emergenti, negli ultimi 10-20 anni, il know-how necessario ad avviare i cicli produttivi. Ora loro fanno tranquillamente anche da soli. E inoltre hanno un costo del lavoro con costi irrisori rispetto a quelli dei paesi ricchi, e senza tutte quelle regole che noi dei paesi industrializzati abbiamo impiegato un secolo a darci. Ciò rappresenta per il nostro mercato del lavoro (soprattutto quello europeo, più regolamentato di quello USA) una concorrenza mortale.
I capitalisti, nella loro caratteristica avidità, hanno pensato che questo problema non li riguardasse, e hanno tirato dritto alla difesa esclusiva dei loro interessi. Finchè il giocattolo si è rotto e la recessione ha alzato la cresta.
Sembrerebbe proprio che quello che non è riuscito alla vecchia Russia dei Soviet stia riuscendo inconsapevolmente ai paesi delle economie emergenti. Si ricorderà la famosa minaccia dei comunisti Sovietici: “Impiccheremo i capitalisti con le loro stesse corde!”. Ebbene, i Sovietici non ci sono riusciti, ma ora è nato chi lo può fare davvero, anche senza dirlo, e anche senza volerlo.

Conclusione
Il sovrapporsi contemporaneo di queste tre crisi ha già dato l'avvio ad una recessione che si è già intuito essere assai problematica e di carattere veramente straordinario.
Questa recessione non è ciclica, è epocale, e non sarà breve.
Soprattutto se i paesi industrializzati continueranno ad andare ciascuno per la sua strada, seguendo la banale logica del libero mercato, e senza preoccuparsi di trovare soluzione ai problemi globali, sarà difficilissimo, o impossibile risolvere l'intricato insieme di tutti questi problemi, e alla fine ne uscirà un mondo che potrebbe essere anche profondamente diverso da quello attuale.
Ma per l'Italia il rischio è ancora più alto perchè abbiamo una economia perennemente sofferente a causa dell'enorme debito pubblico e una politica che invece di farsi carico del problema cerca di sfuggirlo privilegiando logiche populiste e con assurde e antistoriche spinte autonomiste sia al nord che al sud.
Non è proprio il caso di prenderla alla leggera. Storicamente è gia successo molte volte: paesi che dominavano il mondo hanno perso il treno, e ora sono poco più che delle entità geografiche.

Roberto Marchesi
(*) è autore, sotto lo pseudonimo di Marc Robertson, del libro “Scoprire un'altra America”. Ediz. Bastogi – 12/2006 – www.ibs.it.

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