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L’emigrazione femminile in Argentina nella letteratura italiana/2

di Silvia Giovanna Rosa

L’emigrazione femminile in Argentina nella letteratura italiana/2

Figura di spicco della nuova generazione di scrittori interessati al fenomeno migratorio, è Laura Pariani, la quale, nella sua recente opera “Quando Dio ballava il tango” (2002) , da considerarsi a pieno titolo uno dei pochi romanzi di emigrazione scritti in Italia, consegna al lettore un significativo spaccato dell’emigrazione al femminile.

Nel libro compaiono sedici storie, che raccontano ciascuna un frammento di vita di altrettante donne. Le parole di queste protagoniste rimandano a rilevanti tematiche affrontate dalla storiografia, le quali, in un discorso coniugato di sovente alla prima persona, perdono lo schematismo ed il rigore propri della ricerca scientifica, per colorarsi di nuove tonalità ed accenti, che le rendono ricche di richiami e più vicini all’universale condizione di umana sofferenza.
Uno dei personaggi della Pariani, Catterina Cerruti, riassume appieno la condizione di quelle donne che, partite da sole, devono sostenere l’esperienza -traumatica- del viaggio in mare, l’impatto con la nuova vita all’estero e soprattutto il problema della trasmissione della memoria familiare alle nuove generazioni: mantenere e tramandare il ricordo di quell’altra esistenza, ormai remota, vissuta oltreoceano e non dimenticare i sacrifici e le difficoltà vissute all’arrivo in America.
Catterina, appena quindicenne, emigra in Argentina nel 1887, per raggiungere e sposare il cognato rimasto vedovo. Il primo grande ostacolo è la traversata transoceanica, come si legge: “due mesi di onde che battevano il ventre della nave, di notti insonni tra l’odore di vomito, chiedendosi perché non si arriva mai, dove era andata a finire la terra […] ci fu il Carletto Patàn che si morì nel barco insieme ad altri sette […]: li dovettero buttare ai pesci, ché il capitano aveva paura di epidemie, e sulla nave circolava la voce che sarebbero morti tutti prima di arrivare a Buenos Aires. La qual cosa, in un certo senso, era vera: ché quel viaggio tolse a tutti un pezzo di vita” .
Il viaggio via mare, tema che ricorre frequentemente anche nei racconti autobiografici o nelle corrispondenze epistolari, presentava non pochi rischi: anche quando non si verificavano situazioni di emergenza sanitaria, come accadeva allo scatenarsi di epidemie (colera, tifo, vaiolo, varicella), le condizioni in cui avveniva erano tali da mettere a repentaglio la salute degli emigranti. Ancora nel primo decennio del Novecento, le compagnie di navigazione adibivano le stive delle navi a dormitori: carenti di servizi igienici (una latrina ogni ottanta passeggeri) e sovraffollati, con un boccaporto ogni centocinquanta posti letto, erano luoghi in cui pure chi si era imbarcato in buona salute rischiava di ammalarsi e di morire. Oltre ai timori per la pericolosità del mare ed ai disagi legati alle scarse condizioni igieniche delle navi, la traversata era motivo di vergogna e imbarazzo per donne abituate al più rigoroso riserbo, che si trovavano costrette a sopportare la promiscuità e la totale assenza di intimità, dovendo dividere gli stessi locali e talvolta lo stesso giaciglio. Alle sofferenze proprie si sommava la preoccupazione angosciante per il destino dei bambini, molti dei quali morivano durante il viaggio a causa dell’affollamento, dell’umidità, del freddo e della cattiva alimentazione a cui erano esposti
All’arrivo a Buenos Aires, Catterina descrive così la sua prima abitazione: “c’erano quartieri apposta per noi italiani […], con conventillos cadenti tra mucchi di immondizia. […] D’estate si soffocava, bisognava lasciare la porta aperta la notte e i bambini piangevano che i mosquitos se li mangiavano. L’inverno, un freddo barbino; quando pioveva, sgocciolava dentro e tutto sapeva di muffa. […] Nel terreno dietro casa stava una latrina per un’ottantina di persone, un lungo piletòn [lavatoio] di cemento in mezzo alle erbacce, per lavare roba e bambini; in fondo, il corral [recinto] con gli asini, le pecore e le galline. Per non parlare dei topi. Pieno di ratas ovunque. No, lì nessuno sarebbe vissuto a lungo… ”.
La vita all’interno degli squallidi alloggi chiamati conventillos, era molto dura: sporcizia, spazi limitati da spartirsi con gli altri affittuari e degrado dei locali fatiscenti, rendevano ardua la permanenza, in particolare alle donne che qui svolgevano la gran parte delle loro attività, come lavare, stirare, cucire non solo per la famiglia ma anche a pagamento, per esempio per gli uomini soli. La convivenza forzata degli immigrati con altri della stessa nazionalità o di diversa provenienza generava conflitti, ma anche sentimenti di solidarietà e non di rado portava i membri della cerchia degli inquilini a sposarsi fra loro.
Dopo una lunga vita segnata dai lutti, dopo tante vicissitudini, il personaggio di Catterina si lascia andare ad amare riflessioni: “[…] una volta che si passa il mare rinchiusi due mesi in una prigione galleggiante, ci si indurisce. E’ la disperazione di affrontare un mondo di cui non si sa niente, neanche il paesaggio e la lingua; è il crollo dei sogni di una ricchezza facile; il tormento degli atti definitivi, ché si capisce bene che nessuno tornerà indietro. E’ tutto questo che fa impazzire, si diventa cattivi, si maledice il cielo. Ma soprattutto si soffre nel profondo, sentendosi colpevoli di aver abbandonato la propria casa; aspettando la punizione” . La donna, ormai ottantenne, “passa in rassegna i nipoti, sforzandosi di trovare in ciascuno di loro un segno che le indichi di essere in grado di diventare il depositario dei suoi ricordi. […]” , a cui trasmettere la memoria dei tempi lontani, del Paese nativo al di là dell’oceano e delle persone ormai morte, affinché si conservi l’impronta del loro passaggio su questa terra, perché “ai non-più-vivi bisogna portare rispetto, ché solo existe el pasado, la memoria. […] Il passato […] è tiepidezza di una coperta di lana, sapore pieno di un buon bicchiere di vino tinto, profumo della terra, eco di antiche canzoni” .
La suggestione della memoria del Paese natale, che contraddistingue l’esperienza della prima generazione di immigrati, si contrappone, però, all’anelito dei discendenti di inserirsi nel luogo d’arrivo. Sentimenti differenti legano all’Italia lontana gli italiani immigrati e la loro prole nata in Argentina: nostalgia e rimpianto per i primi, indifferenza per i secondi che conoscono la terra d’origine solo attraverso il discorso familiare e non per esperienza diretta. Per i figli ‘argentini’ il confuso agitarsi produttivo dei genitori e il legame che essi conservano con l’Italia si riveste spesso di ridicolo; la cancellazione della storia familiare segue come prima conseguenza di questo atteggiamento.
Nella storia che ha come protagonista Maria Roveda questo rapporto conflittuale, denso di incomprensioni, fra generazioni di immigrati diverse appartenenti alla stessa famiglia, si configura in tutta la sua drammaticità.
Durante l’infanzia Maria sente parlare spesso il padre dell’Italia, l’amata Patria, che lei, nata a Buenos Aires, non conosce. Poco più che adolescente sposa Pidro, giovane italiano appena giunto in Argentina. Come confermano i dati storiografici esisteva, infatti, la consuetudine di contrarre matrimoni endogamici, soprattutto nel caso delle donne: le unioni tra un uomo italiano e una donna argentina figlia di due genitori italiani costituivano l’80% di tutti i matrimoni contratti tra il 1880 e il 1914, periodo in cui è ambientata questa parte del racconto. In un certo senso il dato in questione è discutibile: ci si può chiedere, infatti, se il matrimonio tra italiani provenienti da regioni diverse oppure, come nel caso dei protagonisti della storia, tra un italiano ed una “argentina” di origine italiana, potesse considerarsi davvero endogamico.
A questo proposito risultano interessanti i pensieri che la Pariani attribuisce al personaggio di Maria, la quale sorrideva nel: “[…] ricordare come a quel tempo non sempre riuscisse a capire le espressioni che usava il Pidro […]. Per esempio, perché lui sosteneva che le stagioni in Argentina erano all’incontrario? A Maria, nata in un conventillo di Buenos Aires, la primavera a novembre era sempre sembrata una cosa normale” .
Nella finzione narrativa i due sposi si stabiliscono nella provincia di Santa Fe e avviano un almacén, magazzino all’ingrosso di vini, oli, coloniali e altri generi importati dall’Italia, come fecero nella realtà molti immigrati, nelle mani dei quali era concentrato il commercio alimentare di quella zona; l’ambizione di Pidro porta però l’uomo a legarsi ad un gruppo di mafiosi, finendo in manette. Maria vede così sfumare il sogno di un benessere raggiunto con sacrifici e rinunce e soprattutto vede distrutta l’unità familiare, con i figli che, ad uno ad uno, con rabbia e rancore, lasciano la casa paterna, cercando di cancellare l’infamia che il padre ha gettato su di loro.
Nelle parole di Martinita, figlia di Maria, il complesso rapporto intergenerazionale appare in tutta la sua devastante conflittualità, caricandosi non solo di incomprensioni, ma anche di sentimenti di odio e di disprezzo: “Sono stata felice di andarmene da Rosedal. La mia famiglia, meglio perderla che trovarla: un insieme di persone cupe, tristi, egoiste; una casa di mobili vecchi e dozzinali, quasi volgari; un patio sporco di mozziconi di sigaretta e di sputi. E ancora peggio fu quando mio padre finì in prigione.[…] Fu allora che per la prima volta la vita in quella casa mi parve tutta una bugia: il bigottismo di Mamà, il suo darsi da fare con abitucci e sughetti […]. E tutto quello sfacelo aveva origine nell’ipocrisia di Papà, nella tirchieria con cui ci aveva oppresso per tutta la vita, nella sua maledetta ossessione per i soldi. Certe sere a Rosedal […] era terribile. […] Quell’odore acido di sugo riscaldato, quella solitudine, […] quel passo di Papà sempre dietro le spalle per controllare se uscendo da una stanza avevi spento la luce. […] Il russare dei miei dall’altra stanza…un rumore sporco, come tutto in quella casa. L’unica cosa che potevo fare era fuggirmene via” .
La disgregazione dell’unità familiare è da considerarsi una delle possibili conseguenze negative del processo migratorio e prende le mosse proprio dal rapporto teso e contrastante fra genitori e figli, i quali si trovano spesso a non condividere più lo stesso universo concettuale di riferimento: gli uni legati ad una mentalità e ad uno stile di vita ancora saldamente ancorati ad usi e costumi tradizionali, proiettati verso il raggiungimento di quel benessere economico tanto agognato, gli altri spinti dalla voglia di allontanarsi da un ambiente familiare percepito come limitante e stigmatizzante, di sentirsi simili ai loro coetanei in un Paese a cui sentono di appartenere.
Le vicende del racconto che vede protagonista la giovane Mafalda, emigrata quindicenne a Buenos Aires insieme alla famiglia, mostrano uno dei volti più oscuri del fenomeno migratorio: l’esito negativo del processo di integrazione, che segnò le vite di alcune immigrate di prima generazione. Queste donne si trovarono a vivere nel nuovo Paese prive di quella rete sociale e familiare che in Italia costituiva un supporto durante tutta l’esistenza, scandendone i ritmi e gli avvenimenti principali e della quale costituivano parte integrante, con un ruolo preciso; spesso non avevano istruzione e facevano più fatica ad apprendere la nuova lingua; anche l’impatto con un ambiente urbano, per chi abituato agli spazi a misura d’uomo di un paese, costituiva un trauma. Poteva capitare allora, come narrato dalla Pariani, che la nostalgia per la terra abbandonata, il senso di estraneità e il disagio derivante da una collocazione sociale segnata dai confini dell’emarginazione e della solitudine, assumessero un carattere patologico, sfociando nella follia e nel suicidio.
Le ragioni di un gesto così estremo sono interpretate intensamente dal personaggio di Mafalda: la solitudine e l’alienazione a seguito dell’incapacità di ambientarsi nel nuovo paese, in cui “[…] si sentiva insicura, spogliata di una identità che fin da piccola aveva creduto inalienabilmente sua” , la certezza che mai si sarebbe sentita argentina, perché “una persona può cambiare vita, casa, amore, però anche se ti spogliano di tutto rimane qualcosa che sta in te da quando impari a ricordare, cioè molto prima di aver l’età della ragione: il midollo di un altro modo di vivere” , la disperazione, lo smarrimento, il rimpianto per l’Italia e per il “passato da cui era stata esiliata”, il dolore per i gravi lutti che la colpiscono, il desiderio di ricongiungersi ai ‘suoi’ morti e lasciare, finalmente, l’odiata Argentina, spingono la giovane a togliersi la vita, perché “certi legami, quando si spezzano, ti diventano spasmo nelle viscere” .

Da “Le donne italiane in Argentina tra storia e letteratura”
www.lombardinelmondo.org

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