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G8, lamentarsi è inutile

Siamo in una fase di transizione, in cui gli aspetti positivi superano quelli negativi

I lamenti sull’inutilità, o addirittura il fallimento, del vertice del G8 sono figli di attese malriposte e di un’errata valutazione sullo stato di salute del mondo. Sulle attese si è detto: molti hanno giustamente osservato – penso a Carlo Jean sul Messaggero di ieri – come fosse sbagliato coltivare aspettative per una modalità di consultazione dei grandi della Terra che da tempo ha mostrato tutta la sua impotenza. Dunque, è perfettamente inutile lamentarsi. Quello che è grave, però, è il continuare a mettere in relazione l’anacronismo di questi vertici – e più in generale di tutte le maggiori istituzioni internazionali – con speranze di cambiamento palingenetico del mondo, e in particolare dell’economia planetaria, che derivano da una valutazione del tutto errata della realtà. Si dice quasi ossessivamente, infatti, che “siamo al 1929”, che “la recessione mondiale è alle porte”, che “la globalizzazione è fallita”, che “bande di speculatori controllano il mercato del petrolio, delle materie prime e delle commodity agricole”, che “la Terra è di fronte all’emergenza climatica”.

Chiaro che se questa è l’analisi, poi diventa frustrante vedere che gli “otto grandi” non vanno al di là di un impegno fissato per il 2050 sulle emissioni inquinanti, o di un generico auspicio che il greggio trovi stabilità su prezzi più bassi o ancora che la proliferazione nucleare militare dovrebbe cessare. Ma il tema è che è sbagliata l’analisi. Certo, persino vecchi saggi come Henry Kissinger parlano del pericolo di una sorta di “globo-bang”, una grande depressione globale. Ma è pur vero che la depressione già c’è, ed è di natura psicologica – il pessimismo diffuso, che genera ansia e paure, uccide la speranza e quindi induce all’impotenza – proprio perchè deriva dalla convinzione che “siamo prossimi alla fine mondo”. Naturalmente, so bene che l’economia è fatta soprattutto di aspettative, e dunque la psicologia di massa è fattore di primaria importanza. Ma questo non significa che sia opportuno provare ad invertire la tendenza, facendo leva sull’oggettività delle cose.

No, non mi sto convertendo al proverbiale “ottimismo berlusconiano”, rimango un inguaribile realista, che evita di usare le categorie dell’ottimismo e del pessimismo. Ma è proprio guardando la realtà per quella che è, che si capisce che il mondo è nel pieno di una fase di transizione – come tale sempre foriera di incertezza e non esente da contraddizioni, anche profonde – in cui comunque gli aspetti positivi superano abbondantemente quelli negativi. Miliardi di persone che, tra Asia e America Latina, sono uscite o stanno uscendo da una condizione di totale indigenza o anche di dignitosa povertà per godere dei benefici dello sviluppo economico. Il progresso scientifico e tecnologico, che allunga la vita media, debella le malattie, allevia le sofferenze. L’economia mondiale che continua a crescere a ritmi alti, anche se inferiori a quelli eccezionali dell’ultimo decennio.

Crisi – a cominciare dall’ultima, quella immobiliare e finanziaria – che pur lasciando “morti e feriti” tendono a ricostituire condizioni di maggior equilibrio, come dimostrano i grandi crack dell’era della globalizzazione. Gli stessi strappi sui prezzi di petrolio e prodotti agricoli sono figli dello sviluppo mondiale e dello squilibrio tra domanda e offerta che la sua tumultuosità determina – cui si saranno sicuramente accodate correnti speculative, che comunque sono conseguenza e non causa di questi fenomeni – problema che rimane pur sempre di crescita, non di arretramento.

Tutto questo significa che il mondo, sotto la spinta della globalizzazione – che finora ha vinto, non perso la sua sfida – della rivoluzione tecnologica e della trasformazione degli assetti geopolitici (da quello bipolare a quello unipolare, e ora da questo ad uno che non è ancora multi-polare ma presto lo diventerà), affronta un grande complicato problema di crescita che richiede strumenti sistemi politici e di governance – e probabilmente persino teorie politiche – completamente nuovi. Solo che invece di ragionare e discutere intorno a questo, si tende a far prevalere gli elementi di conservazione, di ancoraggio a vecchie idee, a sistemi antiquati, a schemi sperimentati. Persino l’ovvia constatazione che nel GX dovrebbero entrare paesi come Cina, India, Corea, Brasile, Messico – e magari uscirne paesi marginali come l’Italia – fatica a farsi strada. Per questo misuriamo l’impotenza degli “otto”: è l’inadeguatezza delle sovrastrutture politiche rispetto all’economia, non il fallimento di quest’ultima. Diventarne consapevoli è già essere a metà dell’opera. (Terza Repubblica)

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