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L’uomo di Costantinopoli: l’incontro

di Alfonso Lamartina

Novantuno anni ben portati, magro, elegante nel portamento e curato nell’abbigliamento, ci riceve in una bella giornata quasi estiva davanti alla sua abitazione, per adesso chiamiamola così, dove siamo andati a trovarlo perché ha bisogno di un po’ di compagnia, di poter scambiare quattro parole nella sua lingua madre, di sentire un po’ di affetto intorno, cosa che dice essere quella che gli manca di più. Rimasto solo, alla fine di una vita piena di avvenimenti interessanti, ha scelto una casa di riposo consona con la modesta pensione che riceve dall’Italia.
La situazione logistica è discreta: una cameretta con servizi al piano terra, così come lo sono tutte le altre che l’affiancano, che si affaccia dà un vasto cortile con qualche albero; la bella giornata e l’ora mattutina rendono il tutto più accettabile. Certo lo spettacolo degli altri ospiti della casa, non tutti nelle invidiabili condizioni del nostro, seduti davanti alla porta dei loro miniappartamenti, in attesa che la giornata trascorra, nella speranza che qualche parente, qualche amico, si ricordi di loro e vada a trovarli, induce a tristi riflessioni sul destino che potrebbe toccare anche a noi.
Parla il nostro uomo, e parla in fretta, e vorrebbe raccontarci tutto insieme come se temesse che dopo questa volta non dovremmo più tornare a trovarlo, e si fa fatica a mettere le cose in ordine, d’altra parte novant’anni di vita intensa, di ricordi sempre più sbiaditi, non possono che generare un fiume di parole impossibile da tenere entro gli argini e noi, con le nostre diverse curiosità, diamo un nostro contributo a sviare continuamente il discorso.
Tra i racconti del passato emergono anche le angustie del presente: del vitalizio di guerra che non riceve da vari mesi; degli incompresi motivi che ne hanno determinato la sospensione, di fatto se non di diritto; della assistenza che non è mai abbastanza; dei rapporti con l’ambiente che lo ospita.
E intanto i ricordi escono a fiotti dalla sua bocca. È nato nel 1917 ad Istanbul da genitori italiani che lì vivevano perché lì lavorava il padre, al Ministero del Debito Pubblico della Grande Porta che era però gestito dai francesi. Frequenta la scuola italiana di Istanbul completata la quale – siamo arrivati intorno al 1935 – e il nostro ha 18 anni, torna, ma è un modo di dire perché non c’era mai vissuto, in Italia per arruolarsi volontario e frequentare una scuola militare della Marina a La Spezia dalla quale uscirà con la qualifica di radiotelegrafista e di idrofonista.
Il flusso dei ricordi ordinati si interrompe per fare un salto in avanti di diversi decenni. «Cavaliere sono stato nominato nel ’92 da Scalfaro, e cavaliere non lo si diventa per caso, ma per meriti.. », e ci mostra la la pergamena incorniciata che fa bella mostra di sé su una parete della sua stanza; vorremmo approfondire la questione dei meriti, ma lui ha tirato fuori il cavalierato a sottolineare che nemmeno questo è servito a fargli evitare che il suo vitalizio di guerra gli svanisse dalle mani.
Si ritorna alla sua gioventù, al fatto che dopo la scuola militare si è imbarcato, sulla leggendario “Incrociatore”, dal nome allora famoso. Una “crociera” durata otto mesi e che lo ha portato a girare mezzo mondo, nel frattempo ira fuori un pacco di cartoline illustrate che ad ogni tappa mandava alla famiglia che abitava nel quartiere Beyoglu di Istanbul.
«Ma lo sapete che parlo cinque lingue? L’italiano, il greco, il turco, il francese, lo spagnolo… sì, ero fascista, come tutti», e la cosa non ci sorprende, sarebbe stato strano se non lo fosse stato, quanto poi all’intensità della fede anche lui riconosce che, nel suo come in quello di tantissimi altri, si trattava di una pallida verniciatura superficiale, destinata a sbiadire se non a svanire sotto il sole africano.
«Prima in Libia, alla base di Tobruk e poi a Creta. La vedete questa foto?». «Ma quella è una divisa inglese», obiettiamo. «E che ci faceva lei con una divisa inglese addosso?». Così ci racconta la storia che dal campo di concentramento tedesco di Iraklio lo ha portato a combattere con gli inglesi in Palestina.
E poi? e poi il dopoguerra in Italia, la fortuna di essere mandato da una banca italiana a lavorare in Turchia, la moglie greca, l’abbandono del paese e del lavoro nel ’74, ai tempi della crisi per la questione di Cipro e la decisione di trasferirsi ad Atene. Infine nella casa di riposo e i problemi con questo vitalizio che improvvisamente è scomparso, e stiamo parlando di poco più di 200 euro mensili che gli servivano per fare una vita da “pascià”, come si conviene a chi a Costantinopoli è nato al tempo degli autentici Pascià.

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