di Andrea Ermano
“Anche la crisi della forma partito corre parallela alla crisi dello stato-nazione. E qui in ultima analisi il ragionamento sul governo cosmopolita e la democrazia mondiale approda al suolo della socialdemocrazia europea, che nel nostro tempo – dopo essersi battuta con successo contro l'inumano sfruttamento capitalista, l'imperialismo nazionalista, il clerico-fascismo, il nazi-fascismo e il comunismo sovietico – si vede posta dinanzi al suo compito più alto e generale”. Pubblichiamo oggi la seconda parte del discorso tenuto il 21 giugno 2006 al teatro S. Carlo di Milano dal nostro direttore, Andrea Ermano, nell'ambito del convegno “Sinistra come in Europa – Autonoma, socialista, laica” i cui atti sono pubblicati dalle Edizioni ADL.
Se le grandi questioni ambientali, alimentari, demografiche e strategiche globali pongono all'ordine del giorno della “vecchia Europa” l'impegno per la costruzione di governo politico del mondo, è però chiaro che la grande sfida di un governo cosmopolita riguarda anzitutto la possibilità di una democrazia transnazionale e globale. Disgiungere la prospettiva cosmopolita dal metodo del consenso democratico sarebbe del tutto insensato, per non dir di peggio.
Si capisce infatti che nessuna istituzione, quale che sia la sua potenza militare o finanziaria, tecnologica o diplomatica, potrà mai governare l’umanità senza o contro la maggior parte degli esseri umani.
Ma nessun consenso può venire dalla maggior parte degli esseri umani a una proposta politica generale che, nei contenuti, non vada a confrontarsi con l’enorme “Questione sociale” costituita da bisogni, diffusi ed altamente drammatici, che attanagliano larga parte dei nostri consimili.
E però, nel grande quadro d’insieme, dal quale emerge l’impellenza cosmopolita, non si delinea soltanto la necessità di affrontare la “Questione sociale globale”, ma anche la necessità di affrontarla in una dimensione di pluralismo culturale e religioso, una dimensione tanto più irriducibilmente pluralista quanto più la si guardi su scala globale. Perciò, operano di fatto contro la pace coloro i quali rivendicano le radici cristiane dell'Europa all'interno di una logica identitaria, indebolendo se non avversando l'impegno occidentale a favore del pluralismo.
E qui mi pare in ultima analisi che il ragionamento sul governo cosmopolita e la democrazia mondiale approdi al suolo della socialdemocrazia europea, che nel nostro tempo si vede posta dinanzi al suo compito più alto e generale. Centocinquant'anni di tradizione politico-organizzativa della socialdemocrazia europea — oppostasi con successo all'inumano sfruttamento capitalista, all'imperialismo nazionalista, al clerico-fascismo, al nazi-fascismo e al comunismo sovietico — nascono dal combinato disposto tra l’idea di Giustizia, sottesa all’impegno nella Questione sociale globale, e l’idea di Libertà, sottesa a una accettazione laicamente ispirata delle diversità culturali.
Chi in questi giorni (giugno 2006, ndr), nel corso di un’insulsa querelle sul “cattocomunismo”, va accusando alcuni esponenti del centro-sinistra al governo di essere divenuti troppo “laici” e di aver smarrito la tensione ideale a favore della Giustizia che era un tempo caratteristica del PCI e del dissenso cattolico, dimentica che la laicità non può in alcun modo essere ridotta a mera questione di individualismo o indifferentismo etico, ma investe la condizione di milioni di lavoratori e di giovani immigrati nonché, come si è detto, la questione stessa della pace.
Non è un caso che il dissidio globale ribollente e diffuso cui assistiamo ormai da un decennio e più nelle varie aree calde del mondo denunci costanti motivazioni, o comunque giustificazioni etnico-religiose. Sicché il ruolo politico dell’UE nell’articolazione di una prospettiva democratica globale non potrebbe rivendicare alcuna credibilità presso altri grandi interlocutori — quali il mondo islamico, la Cina, l’India — laddove esso non s'improntasse alla nozione di laicità, base possibile per un dialogo interculturale volto ad adeguare in senso democratico e multilaterale le istituzioni politiche del mondo in cui viviamo.
Certo, ci sono forze che operano sullo scenario internazionale mostrando sensibilità ai problemi sociali, e in prima fila troviamo impegnate su questo fronte le grandi istituzioni religiose. E ci sono forze che operano sullo scenario internazionale mostrando sensibilità al problema dei diritti e delle libertà, e in prima fila troviamo impegnate su questo fronte le grandi istituzioni economiche. Ma a memoria d’uomo non è nota alcuna formazione politica strutturata su scala mondiale e in grado di declinare concretamente il binomio di Giustizia e di Libertà: fatta eccezione per l’Internazionale Socialista, pur con tutti i suoi limiti, fragilità e debolezze.
Se insomma non si può negare che il compito generale della politica si misuri oggi anzitutto e soprattutto in rapporto al problema di dare un governo democratico alla globalizzazione dell’economia e al confronto tra le culture, allora si dovrà pur ritenere che gli strumenti teorici, la cultura politica laica, la vastissima rete di organizzazioni ed esperienze storiche sedimentatesi in centocinquant’anni di lotte del movimento operaio europeo rappresentano oggi più che mai un bene politico prezioso per tutta l’umanità. A me questo ragionamento pare lampante, e sinceramente mi deprime leggere che il sindaco-filosofo di Venezia, Massimo Cacciari, pur consapevole di cose geopolitiche, accusi noi socialisti di “ottocentismo”.
Il compito, classicamente riformista, “di raggiungere democraticamente il governo del paese per governare bene” va dunque ri-concepito nell’orizzonte di una democrazia globale. Ed è solo a partire da questo criterio generale che si può comprendere, per converso, quale “partito” sia più adatto ad affrontare la sfida del nostro tempo. Con il che spero sia divenuta evidente la ragione per cui, quando usiamo l’espressione “partito”, dovremmo in primo luogo ragionare non di DS, DL o SDI, ma di formazioni politiche internazionali. Ed è assai bizzarro che in Italia si faccia esattamente il contrario.
Per quanto detto, anche la crisi della “forma partito” non pare superabile né a partire da una rozza contrapposizione tra “società politica” e “società civile” e nemmeno basterebbe abbracciare una prospettiva radicalmente tesa a sconfiggere le tendenze oligarchiche insite nella “partitocrazia”. Ciò che occorre è anzitutto assumere una prospettiva transnazionale. L’azione del partito e il nostro impegno in esso devono possedere sì radicamento territoriale, ma anche un orizzonte generale. La crisi della forma partito corre parallela alla crisi dello stato-nazione.
Dopodiché, il dubbio che ci poniamo è se i dirigenti diessini si rendano veramente conto di che cosa comporti spingere verso lo “spacchettamento” del socialismo europeo per costruire qualcosa che viene presentato come più bello, più nuovo e più transoceanico, ma che in realtà risponde alla ben nota logica dell’anomalia italiana e della sua eterna conservazione gattopardesca.
Se i DS, nati a Firenze nel 1998 con lo scopo di costruire anche in Italia un grande partito del socialismo europeo capace di candidarsi al governo del paese (heri dicebamus), abbandoneranno questo progetto originario e se provocassero così l’ennesima spaccatura all’interno della sinistra italiana e internazionale, gli effetti potrebbero essere più o meno questi tre: a) un notevole spostamento a destra dell’asse politico nel nostro Paese; b) un sensibile spostamento a destra dell’asse politico europeo; c) un lieve spostamento a destra dell’asse terrestre. Per adesso tutto questo però non è ancora avvenuto. Speriamo che se ne possa parlare seriamente. (2. Fine)
Poscritto 4.6.2008 – Il mio intervento del 2006, qui sopra riportato, si concludeva con la speranza che se ne potesse parlare seriamente. Ciò non è accaduto né prima né durante né dopo lo scioglimento del Pci-Pds-Ds nel Pd. E le conseguenze si sanno. Ma neanche di questo si sta parlando seriamente. Intanto il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, ha manifestato il 2 giugno, giorno solenne, un rischio di “regressione civile” nel nostro Paese. Non sono bazzecole. Chi ne assume la responsabilità? Il gruppo dirigente del Pci-Pds-Ds-Pd tace, e del resto a giudizio di molti (Macaluso, Romano, Besostri, Vander, Bagnoli per citarne solo alcuni a me noti) esso ha mirato principalmente alla conservazione trasformista della propria ubicazione dentro l'establishment italiano. Ma anche coloro i quali ritenevano che almeno l'ancoraggio europeo (e quindi al socialismo europeo) rappresentasse “di fatto” un punto di riferimento molto saldo a sinistra, si trova oggi a porsi alcune scomode domande: noi siamo tra questi. Il PD sta navigando in direzione di un riformismo europeo? Finora non siamo riusciti a capirlo. Saremmo molto grati a chiunque, e soprattutto a Veltroni, se ci fosse data una maggior trasparenza su questo punto decisivo. Altrimenti non importa. Tra pochi mesi, in concomitanza con le elezioni per il rinnovo del Parlamento di Strasburgo, anche il mistero della collocazione internazionale del PD sarà svelato. – AE