di Enrico Cisnetto
La malattia nazionale si chiama declino economico. Occorre rilanciare la crescita
“Emergenza economica e sociale”. Se anche il Governo, segnatamente il ministro Sacconi, commenta così il rapporto annuale dell’Istat sulla salute dell’Italia, significa che al di là delle varie emergenze (Napoli, la sicurezza, il degrado della giustizia, ecc.), la vera malattia nazionale è la mancata crescita economica. Certo, colpisce di più il dato – comunque allarmante – relativo ai redditi, secondo cui il 15% degli italiani non riesce ad arrivare a fine mese, mentre una famiglia su tre non è in grado di affrontare spese impreviste e la metà vive con meno di 1900 euro al mese. Ma deve essere chiaro che i redditi bassi sono figli della crescita zero, ed è dallo sviluppo che occorre ripartire se vogliamo occuparci seriamente di equità.
D’altra parte, a dare l’idea della gravità della situazione è la statistica relativa alla produttività, che ci dice come, negli ultimi dieci anni, a parità di ore lavorate, il rendimento economico dei lavoratori italiani è cresciuto solo del 4,7% contro il 18% medio della Ue a 15. Ciò significa che siamo cresciuti meno di un terzo rispetto ai nostri competitori del Vecchio Continente. E l’Istat specifica anche quali fattori contribuiscono maggiormente al declino: la prevalenza sia di produzioni labour intensive, sia di comportamenti di impresa volti a perseguire obiettivi di redditività piuttosto che di produttività. E’, insomma, la diagnosi che in questi anni la classe dirigente ha ascoltato ma non fatto propria: quella di un tessuto produttivo che è ancora composto in larghissima parte da aziende che non hanno accettato la sfida della globalizzazione. Che sono rimaste ferme a paradigmi produttivi decotti: costo del lavoro decisivo, piccolissima dimensione, bassa o bassissima intensità di capitale e di know how, mancato utilizzo dell’innovazione di processo e di prodotto. Imprese che hanno scelto di arroccarsi su posizioni da “rentier”, magari investendo in immobili o speculando sui derivati, piuttosto che investire e andare a combattere sui mercati.
Il risultato di questa asfittica dinamica industriale è, come ha certificato ieri l’Istat, quello di aver causato un “grave quanto unico impoverimento dell’Italia rispetto ai suoi partner comunitari”. Con la conseguenza che tra il 2000 e il 2006 il reddito per abitante è passato da 4 punti sopra a 8 punti sotto la media europea. Come dire: in Europa eravamo tra i più ricchi, ora siamo tra i più poveri. Non a caso nel 2007 l’Italia ha continuato la sua corsa sul piano inclinato verso la povertà, perdendo un altro punto percentuale rispetto al benchmark europeo. Il risultato è che oggi la situazione è insostenibile. Il Paese, che pure sopperisce con il patrimonio accumulato nel passato alla riduzione del reddito, ha bisogno di misure drastiche a favore della crescita. In questo senso, ben venga la proposta del ministro Brunetta di rilanciare la produttività nella pubblica amministrazione, di sicuro il punto più debole del nostro sistema economico. Sapendo che se la lotta ai “fannulloni” è sacrosanta, altrettanto vero è che assenteisti incalliti e nullafacenti totali rappresentano una piccola parte, patologica, della scarsa efficienza più complessiva (questa sì fisiologica), della macchina statale.
Evitiamo allora di surriscaldare il clima – per non ripetere il “caso articolo 18” del 2001 – e andiamo dritti all’obiettivo di costruire un sistema del lavoro pubblico adeguato e moderno, utilizzando questa atmosfera di “appeasement” tra maggioranza e opposizione per mettere mano alla riforma dei contratti, a quella delle pensioni e alle altre misure di cui l’economia ha bisogno per ripartire. Ricordandoci che questo governo è sorretto da una delle più ampie maggioranze del dopoguerra. Potrebbe essere l’ultima occasione buona. (Terza Repubblica).