di Andrea Ermano
“Se i DS, nati a Firenze nel 1998 con lo scopo di costruire anche in Italia un grande partito del socialismo europeo abbandoneranno questo progetto provocando l’ennesima spaccatura all’interno della sinistra italiana e internazionale, gli effetti potrebbero essere più o meno questi tre: a) un notevole spostamento a destra dell’asse politico nel nostro Paese; b) un sensibile spostamento a destra dell’asse politico europeo; c) un lieve spostamento a destra dell’asse terrestre”. Di seguito il testo del discorso tenuto il 21 giugno 2006 al teatro S. Carlo di Milano dal nostro direttore, Andrea Ermano, nell'ambito del convegno “Sinistra come in Europa – Autonoma, socialista, laica” i cui atti sono pubblicati dalle Edizioni ADL.
Seguo da tempo, con attenzione, il dibattito in posta elettronica nella Newsgroup della Sezione DS “Aldo Aniasi” di Milano Centro, dove nelle scorse settimane mi ha colpito un’osservazione sul Partito democratico: “In assenza della fede in futuri eventi rivoluzionari” – scriveva una compagna – “l’obiettivo di un partito riformista non può che essere quello di raggiungere democraticamente il governo del paese per governare bene: cioè modificare le condizioni materiali e immateriali di vita della gente qui e ora, secondo un definito schema di valori”.
Penso anch’io che l’obiettivo dell’azione politica, rispetto alla quale il partito è sempre solo un mezzo e non mai un fine, “non può che essere quello di raggiungere democraticamente il governo del paese per governare bene”. Governare bene. Se non che, bisogna dirlo, il Paese non appare più governabile a partire da un orizzonte nazionale. Il nostro orizzonte di governabilità è l’Europa: un “giudizio di fatto” valido, mi pare, anche indipendentemente dal nostro schema di valori, che tradizionalmente colloca (o dovrebbe collocare) il concetto di “nazione” nell’umanità intera.
Che l’Europa rappresenti l’orizzonte di governabilità dell’Italia costituisce del resto il caposaldo politico-programmatico comune del centro-sinistra italiano. Si tratta, ancorché tardivamente, di un esito del dibattito politico: desideriamo ricordarlo agl'immemori, anche perché in anni lontani, ma non dimenticati, fu questa editrice a diffondere il Manifesto di Rossi, Spinelli, Colorni e Ursula Hirschmann. Era pervenuto alla “Cooperativa” di Zurigo dall’isola di Ventotene, trafugato nel doppiofondo d’una valigia. Seguì poi da Tolosa il documento di Silvio Trentin, Libérer et Fédérer.
«Più tardi conoscemmo appelli e testi analoghi, che provenivano dai gruppi francesi di “Combat”, di “Franc-Tireur” e di “Liberté”, dal “Movimento del lavoro libero” in Norvegia, dal “Movimento Vrij Nederland” in Olanda e anche da sparsi gruppi di tedeschi antinazisti, alcuni dei quali pagarono con la vita la loro avversione alla tirannia», scriveva Silone rievocando l’epoca in cui egli – a partire dal 1941 e contro l’evidenza massiccia di armate hitleriane ormai stanziali, da Parigi a Stalingrado – diede alle stampe quegli appelli, quei manifesti, quelle ipotesi visionarie di chi allora osò pensare che occorresse liberare e federare l’Europa superando i confini delle nazioni.
Oggi abbiamo di nuovo bisogno di quel coraggio ideale per determinare di che consista il progetto europeo in rapporto alle sue finalità possibili: contribuire alla costruzione di un mondo più giusto ed equamente libero per tutti.
Questo noi abbiamo il dovere di ricordarlo, ma non tanto a legittimo titolo di merito per L’Avvenire dei lavoratori come editrice clandestina del “Manifesto di Ventotene”, quanto soprattutto a comprova della forza delle idee.
Orbene, solo su un piano di riflessione europeista dove la posta in gioco è se e come l’UE riuscirà a costituirsi in quanto soggetto globale, mi pare possibile inquadrare un dibattito circa le prospettive e la cultura di governo di un partito riformista in Italia. Il punto dolente consiste tuttavia nel fatto che – come avvertono autorevoli osservatori, tra cui l’ex cancelliere Schmidt – nemmeno la governabilità dell’Europa appare realizzabile di per sé, ma dipende a sua volta dalla costellazione globale. Sicché il problema di fondo consiste nel compito di progettare un contributo europeo alla governabilità del mondo.
In alternativa a questo progetto, che Kant chiamava di federalismo cosmopolita, c’è il rischio di uno sgoverno globalizzato sotto l’egida del “mercato”, che quanto a forza regolatrice non appare per nulla in grado di intervenire là dove non sussistano attese di profitto quantificabili sul breve termine.
Sic stantibus rebus che ne sarà allora delle grandi questioni rispetto alle quali i feticci neo-liberisti non mostrano alcuna efficacia? Rimarrebbero fatalmente, ovviamente, delle grandi questioni irrisolte. Pensiamo ai mutamenti climatici, per fare un esempio: le conseguenze che si profilano saranno ben più drammatiche di quanto sinora assunto. Da ultimo lo ha certificato nel gennaio scorso il Meteorological Office britannico in un’autorevole sintesi degli studi di settore (Avoiding Dangerous Climate Change). Nella prefazione al volume Tony Blair scrive: “I risultati qui esposti evidenziano come i rischi connessi al mutamento climatico in atto siano ben maggiori di quanto pensassimo”. Accenti inconsueti per un capo di governo occidentale. L’allarme è evidente.
La questione climatica si costituisce come un ambito, vitale per l'umanità, in cui il capitalismo e il libero mercato hanno finora battuto la fiacca. Si tratta di uno dei molti esempi possibili. Ma basta a affermare che, molto laicamente, sull’umanità incombe un rischio multiplo di catastrofe.
Il ragionamento è semplice, un macro-mutamento climatico acuirebbe verosimilmente la già seria crisi alimentare, con conseguenze non solo umanitarie, causa la mancanza d’acqua e l’aumento delle carestie, ma anche strategiche, causa il probabile insorgere di nuovi conflitti armati per l’accaparramento delle risorse residue.
Nessuna persona di senno può negare questi enormi fattori di rischio. Ne consegue che il problema della governabilità, se posto seriamente, non può fermarsi alla scala comunale, regionale o nazionale, ma deve collocarsi in un orizzonte generale dove il progetto cosmopolita ci sfida tutti in modo sempre più urgente.
Non mi è possibile in questa sede, neppure per brevi cenni, tratteggiare la questione, che pur si addensa all’orizzonte, di uno stato d’eccezione globale. Alcuni pensatori contemporanei hanno da qualche tempo avviato su ciò le loro riflessioni. Basti dire che su questa tematica, di benjaminiana memoria, s’impernia in sostanza il dissidio tra la “nuova destra” americana e la “vecchia Europa”.
Mi limito qui a tener fermo solo a questo caposaldo: se la “vecchia Europa” intende concretamente opporsi alla folle tentazione di stringere i ranghi dell’Occidente puntando a governare il pianeta in forza della supremazia tecnologico-militare, occorrerà allora che qualcuno da Bruxelles vada “là fuori”, tra i miliardi e miliardi di nostri consimili, a costruire consenso e collaborazione sulle emergenze che (in ambito ambientale, demografico, alimentare e strategico) minacciano tutti.
Capisco che il contenuto di queste osservazioni può apparire un po' ansiogeno, soprattutto in tempi di egemonia culturale televisiva. Ma la parola “democrazia”, se ancora possiede un senso proprio, dovrebbe significare assunzione di responsabilità da parte di tutti e di ciascuno. Per noi italiani questo rinvia all'Europa. E non è dato capire quale altra grande visione politica dovrebbe perseguire l’Unione se non quella di promuovere una governance democratica mondiale, multilaterale e pacifica.
Insomma, la “vecchia Europa” ha buone ragioni “oggettive” e altrettanto solide ragioni “soggettive” per tessere una prospettiva di azione generale che punti all’adesione di parte consistente degli esseri umani a un progetto di governo politico del mondo. (1. Continua)