"Ma quando mai un Dio misericordioso metterebbe fuori legge l’allegria?"

di Mauro Montanari

“Mi occupo delle donne nell’Islam e del loro diritto a non essere condannate anche se, per loro malasorte, nascono in una cultura (radicale?) islamica. “Voglio prendermi tutta la responsabilità di quanto scrivo senza coinvolgere altri in un articolo non politicamente corretto”

La Fatwa, nell’Islam, è un parere giuridicoreligioso legato all’autorità di chi la emana. Ci sono casi famosi di Fatwa, come quello che colpì sotto forma di condanna a morte lo scrittore Salman Rushdie. Ce ne sono altri meno noti, che in genere vengono emanati contro gente semplice. Soprattutto contro donne. Proprio di questo mi occupo: della questione femminile nell’Islam e del diritto delle donne a non essere condannate anche quando, per loro malasorte nascono in una cultura (radicale?) islamica.

Voglio prendermi tutta la responsabilità di quello che scrivo, senza coinvolgere altri in un articolo non politicamente corretto, quindi userò da ora in poi la prima persona. Fino a qualche mese or sono era visibile in YouTube un video girato clandestinamente che presentava la lapidazione di due donne condannate da una Fatwa per omosessualità e adulterio. Siamo in Iran nell’anno 2000.

Nel video, le due donne venivano fasciate con teli bianchi in tutto il corpo, compresa la testa. Venivano poi calate in due fosse e coperte di terra fino alle spalle. Attorno c’era una folla di uomini e ragazzi, ciascuno con una grossa pietra in pugno, che cominciavano a scagliare contro le due donne, tenendo sotto il braccio una copia del Corano per contenere la violenza del colpo. Quasi ogni pietra centrava il bersaglio e rimbalzava via, lasciando sulla tela macchie di sangue che si allargano. Il video me lo indicò un amico, giornalista e politicamente corretto.

Costui mi avvertì anche che quello non è “tutto” l’Islam. È vero, quello non è tutto l’Islam, che è fatto in buona parte di gente per bene. Tuttavia qui voglio proprio occuparmi di quel resto che altrimenti rischia di rimanere invisibile. Mi venne in mente allora, dopo la discussione con il collega, che avevo conservato in un cassetto il testo di un comunicato stampa dell’agenzia Afp, datato gennaio 2001. Il testo è il seguente: „Ragazza costretta a concedersi, condannata a 180 frustate.

Tsafe (Nigeria). I familiari annunciano che la diciassettenne incinta, condannata da una corte islamica (ma era una Fatwa) a 180 frustate per aver avuto rapporti sessuali prima del matrimonio, partorirà a giorni. In settembre, Bahriya Ibrahim Magazu (la ragazza) aveva spiegato ai giudici di essere stata costretta a concedersi a tre uomini, tutti soci del padre, e aveva fornito sette testimoni.

I parenti della ragazza hanno fatto sapere che il parto è atteso entro un paio di giorni, e che la fustigazione avrà luogo almeno 40 giorni dopo“. Nei miei anni da giornalista, dicevo, comunicati del genere ne ho visti tanti. Questo mi colpì e l’ho tenuto da parte per alcuni particolari. I seguenti. Pur essendo lei la vittima di uno stupro, la ragazza è stata condannata praticamente a morte. I testimoni a suo favore erano sette, cioè tre più di quelli richiesti dal Corano per una assoluzione, eppure la ragazza è stata condannata lo stesso.

Gli stupratori erano soci del padre. Sarei pronto a giurare che la ragazza è stata offerta per favorire gli affari, poi, malauguratamente per lei, è rimasta incinta, e questo ha firmato la sua condanna. Scommettiamo? La questione dello stupro e dei quattro testimoni è indicativa di una cultura. Si tratta di una lettura letterale del Corano, la cui applicazione cominciò probabilmente in Pakistan. Nel 1977 un golpe militare sostenuto dai governi occidentali mandò al potere il generale Zia Al Haq, amante del golf, del tennis, dell’ordine.

Per mantenere il quale, Zia si convertì all’Islam e si circondò di Mullah, a cui diede il titolo di Comandanti della fede, lo stesso dei successori diretti di Mohammad. Fu allora che la lapidazione si impose come pena per l’adulterio. Il fatto è che una donna, vittima di uno stupro, veniva automaticamente accusata di adulterio e, se voleva discolparsi, doveva produrre quattro testimoni maschi a suo favore. Ora, che sul luogo di uno stupro possano esserci quattro uomini che poi testimoniano a favore della vittima, è cosa parecchio improbabile. Per questo l’accusa di adulterio –e la lapidazione- diventavano e sono tuttora quasi sempre automatici.

La cosa forse più sorprendente è la mancanza di protesta civile su provvedimenti come questo. Non solo in Occidente, nei cui salotti intellettuali il “bon ton” e il “political correct” non lo permetterebbero (e di questo dovremmo profondamente vergognarci). Ma anche negli stessi movimenti civili dell’Islam in Occidente, che pure esistono. Con poche eccezioni. Una di queste è la giovane giornalista americana (di origine ugandese) e islamica, Irshad Manji, la quale, in una trasmissione della Global TV, prodotta dalla Canadian Brodcastig Corporation, sostenne un paio d’anni fa il seguente (citazione testuale): “Noi islamici ci stiamo parando il culo.

Nonostante tutte le nostre condanne alla frangia fanatica dell’Islam evitiamo di affrontare l’aspetto più paralizzante della nostra religione: l’intoccabilità del pensiero islamico prevalente”. Mi pare proprio questa assenza di critica interna il punto focale. Quando nel 2006 una ragazza berlinese di origine turca fu uccisa dal fratello con un colpo di rivoltella in testa perché aveva assunto atteggiamenti troppo occidentali, ci fu forse una levata di scudi da parte della comunità islamica in Germania contro la violenza nelle famiglie? Non me la ricordo! C’è qualcuno nella comunità islamica che si dà un qualche pensiero contro i matrimoni coatti e contro la tratta delle spose bambine; pratica, questa, perfettamente normale in tutta Europa? Non mi risulta!

Quando, all’epoca della guerra cecena, siti web islamici pubblicavano disquisizioni coraniche sul fatto che è ammissibile uccidere i prigionieri, anche civili, dopo averne stuprate le donne, si è mosso qualcuno in Occidente in nome dei diritti umani? Non mi pare! In Pakistan muoiono due donne al giorno per omicidi d’onore. In Malaysia, Mauritania, nel Mali esistono racket quasi istituzionali per lo sfruttamento dei bambini. Nel Sudan la schiavitù è praticata dalle stesse milizie islamiche.

Nel Bangladesh chiunque invochi i diritti delle minoranze religiose viene imprigionato. La lista potrebbe continuare. Avete mai visto qualcuno, tra gli islamici moderati, qualcuno tra gli intellettuali, qualcuna tra le associazioni democratiche muoversi, manifestare con tanto di cartelli e grida in piazza contro la violenza, contro tutto ciò? L’unica cosa che si sente dire è: “Non tutti gli islamici sono così”.

Vero, ma questo lo abbiamo già detto anche noi. Qualcuno c’è. Dopo l’11 settembre, in un commuovente articolo sul quotidiano pachistano The Nation il collega Izzat Majeed diceva: “Noi musulmani, evitando di affrontare i nostri dèmoni storici, sociali e politici, abbiamo fallito come società civile”. Parole sue, parole vere. Ora, però, mi pare già di sentire le voci che si levano dal mondo politicamente corretto da noi in Occidente: “Perché, noi cristiani non ci siamo macchiati forse di crimini contro l’umanità?”.

Certo, molti, troppi! Ma sarà tema esaudiente di un altro articolo. Questo, dicevo, non è politicamente corretto. Parlavamo dell’11 settembre. Mohammad Atta, capo del gruppo suicida delle Torri gemelle, lasciò un memoriale. “I giardini del paradiso -scriveva- ci aspettano in tutta la loro bellezza e le vergini del paradiso stanno chiamando: vieni a noi, amico del Signore”. Si riferiva, Atta, al paradiso islamico, nel quale “settanta vergini dagli occhi scuri” attenderebbero i prediletti.

Gli aveva fatto il verso qualche mese prima un reclutatore della organizzazione terroristica paestinese Hamas, il quale aveva dichiarato alla Cbs che nel corso della sua attività presentava ai giovani aspiranti terroristi, per invogliarli, proprio la visione delle settanta vergini. Cosa? Per questo hanno fatto saltare le Torri?

Per un coito grandioso, moltiplicato per settanta, hanno condannato a morte migliaia di persone innocenti, bambini, anziani, gente responsabile solo di passare da quelle parti, di lavorare in quell’ufficio come io adesso sto lavorando nel mio? Oppure c’è qualcosa che non ho capito? Finisco questo articolo citandone il titolo. Sono le parole pronunciate da una giovanissima islamica al suo insegnante di religione, quando costui le ricordò che “per una donna è disdicevole ridere”.

Per aver detto quella frase all’Imam, la ragazza fu condannata alla fustigazione. Siamo in Pakistan nel 2004. Post Scriptum. Quest’articolo, anche troppo lungo, che dedico a tutte le vittime della violenza -islamica e non- in particolare alle donne, era pronto già nel gennaio scorso in una versione un po’ diversa. Alcuni amici e colleghi, a cui l’avevo inviato in visione, me ne sconsigliarono la pubblicazione. Li ringrazio per quel consiglio, dato ovviamente nel mio interesse.

Però la vita è troppo breve per togliersi il piacere di dire le cose come si vedono, quindi lo pubblico lo stesso. Vedremo se le reazioni saranno davvero così negative.

Mauro Montanari

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