di Lidia Menapace
A Pasqua il papa, parlando come capo della Chiesa universale, ha detto cose da valutare. In sostanza si oppone a Bush, chiedendo che si tratti ovunque e non si perseguano “soluzioni” militari né in Iraq, né in Afghanistan, né in Darfur, né in Medio oriente, né nel Tibet. Sono posizioni grosse e pesanti, e conviene capire donde provengono e che effetti possano avere. In primo luogo vi è certamente da essere contenti che Ratzinger indichi la strada delle trattative ovunque e smentisca l'idea della “soluzione” militare, che appartiene a Bush e al suo team e non certo solo a quelli. Sarebbe esagerato sostenere che sia diventato antiamericano, ma certo la situazione della Chiesa cattolica negli USA dove non c'è Concordato e vige un regime di separazione tra stato e chiesa con storici privilegi per le confessioni evangeliche (wasp) è oggi dura, per la pedofilia di numerosi preti e le multe salatissime che le diocesi pagano per mettere a tacere gli scandali. Un sospetto di scarsa fedeltà agli USA dei cattolici fu espressa formalmente anche al tempo della candidatura di John Kennedy e il candidato presidente allora dichiarò solennemente che se si fosse trovato in contraddizione tra la sua coscienza di cattolico e la legge dello stato si sarebbe dimesso dalla presidenza.
Le altre affermazioni del papa si riferiscono alla tutela degli interessi cattolici in varie parti del mondo, in Iraq smarcarsi da Bush è indispensabile per fermare la persecuzione dei Caldei; trattare in Medio oriente con Israele per i luoghi santi comporta che la Chiesa possa sostenere -come fa da tempo- che Gerusalemme deve essere città aperta e capitale di ambedue gli stati. Analoghe sono le ragioni della scelta diplomatica per Afghanistan e Darfur. Particolarmente interessante la posizione sul Tibet. Il papa ha taciuto per giorni, non aveva ricevuto il Dalai lama e sconsigliò il boicottaggio delle Olimpiadi di Pechino e anche a Pasqua suggerisce saggiamente che la questione sia trattata per via diplomatica. Perché questa posizione? gli interessi cattolici sono molto più forti in Cina che nel Tibet. Di conseguenza dovendo badare agli interessi della Chiesa il papa fa appello al massimo possibile di saggezza. Ne viene una serie di posizioni politiche accettabili.
Devo dire infatti per ciò che mi riguarda, che naturalmente sono per lottare per i diritti civili dei Tibetani, calpestati dalla Cina, ma non sono affatto entusiasta di sostenere l'idea di uno stato confessionale, tra l'altro anche perché le monache tibetane sono tenute in una soggezione molto pesante.
A me sembra che sia importante cercar di capire a lume di ragione il perché delle mosse del papa come mosse politiche, perché tali sono e segnalano che forse sta convincendosi che ha migliori carte da giocare a livello internazionale che non in Italia. Il suo disegno neotemporalista si imbatte in difficoltà crescenti e provoca resistenze forti tra i credenti e alleanze molto dubbie fuori dal mondo cattolico. Forse pensa di far valere le sue notevoli carte alle N.U. o nelle Nunziature, usando la nota e affermata diplomazia vaticana. Ciò rischia di soffocare un po' le Conferenze episcopali nazionali a vantaggio di una struttura più centralizzata e direttamente dipendente dal Vaticano, senza impegni di apostolato né cura d'anime. Non è facile capire le conseguenze. Giovanni XXIII veniva dalla carriera diplomatica e fu un papa sommamente pastorale. Il cardinale Pio Laghi fu un tremendo Nunzio in Cile a favore di Pinochet. Bisogna abituarsi a leggere le carriere e le posizioni. Credo sia un buon esercizio di laicità.(Italialaica)