di Renzo Balmelli
Sarà stata una coincidenza legata alle condizioni di salute. Oppure una scelta strategica. Vallo a sapere. Sta di fatto, caso o mossa studiata a tavolino, che Fidel Castro nell’annunciare a 81 anni il suo ritiro dalla scena politica, anche sul viale del tramonto è riuscito a tirare l’ennesimo scherzo da prete agli Stati Uniti. La qualcosa, per uno come lui che è stato educato e cresciuto dai gesuiti, non è poi così sorprendente.
La decisione coglie invece Washington se non proprio impreparata, comunque in una fase politica delicata e carica di tensioni. La capitale federale è immersa nel clima rovente della campagna elettorale e il dopo Castro, con tutte le sue implicazioni, è una patata bollente di cui i candidati alla Casa Bianca avrebbero fatto volentieri a meno in questo momento. Sia in casa democratica, sia in quella repubblicana, la questione cubana fin qui era stata affrontata con la massima cautela e discrezione. Non era un tema centrale della sfida. Il voto dei profughi anticastristi naturalizzati in Florida fa gola a tutti e potrebbe persino fungere da ago della bilancia. Le circostanze mai chiarite della rielezione di Bush proprio in quello stato (si parlò addirittura di brogli, però mai accertati) ne sono la dimostrazione lampante. Da qui la circospezione mostrata dai duellanti.
Ora invece né Hillary Clinton e Barack Obama da un lato, né John McCaine e Mike Huckabee dall’altro, potranno fingere di ignorare la svolta epocale che si sta compiendo sull’isola con il pensionamento del leader maximo. Chi dei quattro sarà eletto (e noi ovviamente ci auguriamo sia un democratico) troverà fin dal primo giorno il dossier cubano sulla scrivania della stanza ovale con impressa la dicitura “URGENT”. Ma già adesso il tema è di estrema attualità. Per capirlo basta d’altronde misurare l’intensità delle reazioni da un capo all’altro del pianeta. Con la rinuncia di Fidel Castro, dopo diciannove mesi di una malattia sulla quale vige ancora il segreto di stato, a Cuba in effetti si apre ufficialmente la transizione.
I delicati equilibri geo-politici nella regione caraibica fanno così la loro fragorosa irruzione nella campagna elettorale di una nazione, gli Stati Uniti appunto, che – ironia della sorte – non hanno lasciato nulla di intentato per liquidare il comandante dei barbudos. Invano.
Quasi mezzo secolo di potere assoluto nell’enclave comunista più vicina al suolo americano non sono stati uno scherzo per Castro. Ben dieci presidenti Usa, da Eisenhower a Bush, hanno cercato di scalzarlo, con le buone (raramente) o con le cattive (ben più frequentemente). Eppure Fidel si è arreso soltanto alla malattia, che ne ha minato il fisico da condottiero, ma non il suo spirito guerriero. “Non saro’ piu’ al fronte”, ha detto, “ma resto un soldato delle idee”.
Il tempo corre anche nell’ultima roccaforte del socialismo reale. L’alone romantico della rivoluzione che ha infiammato intere generazioni grazie anche al mito di Che Guevara è svanito.
Dalla lunga marcia che mise fine al regime corrotto di Batista, la figura di Castro ha sempre diviso gli animi: c’è chi lo considera un dittatore assoluto, colpevole di aver creato uno stato di polizia e di aver azzerato le libertà civili e politiche nel suo paese; da altri è ammirato, anche per aver diffuso un sistema sanitario efficace ed essersi prodigato perché i cubani potessero accedere a un’istruzione di livello elevato. Prima dell’avvento del castrismo l’analfabetismo era una piaga diffusa e tollerata per schiavizzare i contadini e le classi piu’ povere, trattate peggio delle bestie.
Le prospettive non sono esaltanti. Anzi! Chi è stato all’Avana sa che la vita da quelle parti non è uno scherzo. Una nota personale. A Cienfuegos mi sono imbattuto in uno studente che cercava turisti da accompagnare per racimolare qualche dollaro. Quando gli chiesi come se la cavava, mi disse che col suo nome avrebbe sempre trovato una via d’uscita. ( “Come ti chiami?” — “Lazzaro”, mi rispose, con una franca risata. Una frase intrisa di rassegnazione, certo, che pero’ non nega la speranza, non cancella il sogno di un avvenire migliore).
A dispetto delle innumerevoli delusioni e delle tante privazioni, Castro agli occhi della sua gente non ha smesso di essere il combattente che ha saputo trasformarsi in un battagliero rivoluzionario capace di tenere sotto scacco gli Usa per mezzo secolo. Fidel affrontò le sfide più accese sotto la presidenza del “progressista” Kennedy, quando la Cia appoggiò il tentativo di sbarco alla Baia dei Porci, fallito miseramente nel 1961, e la grande crisi dei missili russi a Cuba dell'anno successivo.
Nessun presidente americano è però riuscito a stroncare il lider maximo, con cui hanno fatto i conti i potenti del mondo intero a cavallo tra XX e XXI secolo. Compreso un Papa, Karol Woityla, il primo pontefice – passato alla storia anche per aver sconfitto il comunismo – a visitare Cuba e ad avere un colloquio diretto con Fidel. In questi anni lo stato marxista di Cuba, proclamato ancora prima che il muro di Berlino fosse eretto, ha mostrato tutti i limiti dell’economia rigidamente pianificata. Ma ha dovuto anche affrontare prove difficilissime, che avrebbero messo al tappeto chiunque.
L’isola si è vista strangolare dall’iniquo embargo americano. Con il crollo dell’Unione Sovietica ha perso l’alleato piu’ importante, eppure non è affondata, non del tutto comunque. L’orgoglio del Davide cubano contrapposto al Golia yankee adesso pero’ non basta piu’. Ci sono attese da colmare, la popolazione chiede udienza ed esige di essere ascoltata.
I successori sanno qual'è la posta in palio. Per loro si apre una partita cruciale. Al fratello Raul, considerato un pragmatico intriso di realismo, spetta il difficilissimo compito (quello che non riuscì a Gorbaciov) di riformare il sistema senza abbatterlo.
Appare improbabile che i cubani, a meno di un giro di vite autoritario, siano disposti ad accettare ancora a lungo soluzioni di ripiego. Occorrono riforme incisive, cambiamenti in profondità del sistema, che la popolazione attende con malcelata impazienza. Fingere di lavorare (fingere perché finiti gli studi, la maggioranza resta a terra) per un finto stipendio non porta da nessuna parte, ma solo allo scoramento.
Difficilmente d’ora in poi i cubani si lasceranno convincere che in questo regime possono sopravvivere e svilupparsi. E questo è appunto il nocciolo della sfida che i nuovi dirigenti sono chiamati a raccogliere. Cuba d’altronde non è fuori dal mondo. Il regime puo’ anche vietare la vendita delle pubblicazioni straniere, ma le informazioni arrivano comunque, veicolate dai viaggiatori e captate mediante i programmi satellitari su cui la polizia segreta non riesce ad avere un controllo capillare . La gente chiede di vivere meglio, di tagliare i lacci della pedantesca burocrazia che soffoca qualsiasi iniziativa e di recuperare i diritti umani (ossia la libertà di pensarla diversamente dal potere) proprio come si conviene ad una moderna democrazia compiuta.
L’uscita dal socialismo reale presuppone la ricerca di un altro approdo, magari ricalcato sul modello del capitalismo cinese, che consenta all’economia di ripartire e nel contempo sia in grado di creare le condizioni politiche e psicologiche atte a dare vita a un diverso clima nei rapporti con gli Stati Uniti. Rapporti, sia chiaro, non sudditanza.
Il torto maggiore che si potrebbe fare a Cuba sarebbe di americanizzarla oltre ogni limite della decenza, invadendola di fast food che finirebbero col corromperne la straordinaria, incantevole bellezza. La sola idea che un banco di hamburger possa un giorno soppiantare lo spirito che ancora aleggia quando si entra nella “Bodeguita del medio”, il locale amato da Hemingway , fa venire l’orticaria. Immaginare il Malecon, l’affascinante lungomare dell’Avana, invaso da cubi di cemento made in USA è un’idea semplicemente intollerabile.
I nodi da sciogliere a Cuba sono tanti e di svariata natura. Tra pochi mesi, alla Casa Bianca potrebbero esserci una donna (Hillary) o un uomo (Obama) che con la loro politica, agli antipodi da quella di Bush e dei repubblicani, avrebbero i giusti requisiti per accompagnare positivamente una lenta apertura di Cuba, impostata sul rispetto e la reciprocità.
Per uccidere Fidel Castro sono stati messi a punto 637 piani. Uno anche con sigari-bomba (ordito dalla Cia). Tutti, chiaramente, falliti. Il futuro presidente americano farà bene a tenere presente fra le opzioni di politica estera che Cuba, malgrado la vergogna di Guantanamo, non è l’Iraq, non è terra di invasione, terra di conquiste, avamposto artificiale della cosiddetta civiltà occidentale. Qualsiasi tentativo di forzare la mano ai cubani verrebbe considerato dall’opinione pubblica internazionale alla stregua di una intollerabile ingerenza negli affari interni di uno stato sovrano. Oltretutto, la tentazione di imporre con le maniere sbrigative l’american way of life quasi ovunque essa sia stata attuata s'è rivelata drammaticamente fallimentare.
Chi ha visto Cuba prova, ogni volta che ripensa a quell’angolo di terra che non finisce mai di stupire, una struggente nostalgia. E spera con tutto il cuore che non diventi il ricordo di un piccolo, grande paradiso perduto.