Sette nani nelle mani del dollaro

di Domenico Bilotti

Chi recensisce la crisi dell'economia americana, spalleggiata dal grave deprezzamento del dollaro, come un evento drammatico e imprevedibile, sappiate, sta facendo attività di propaganda, o dimostra un grave deficit di politiche monetarie.
Molte volte nell'ultimo trentennio i governi americani hanno cercato di rilanciare il capitolo export o di rendere nuovamente competitivo il sistema economico statunitense con una politica di reiterati allentamenti sul dollaro, e sulla sua forza di cambio nei confronti delle economie debitrici o creditrici: nel caso di specie, l'Europa, rispetto alla quale gli Stati Uniti sono da tempo parteners economici in pozione privilegiata, poiché esportano tipologie diverse di beni, e a tipologie di prezzo diverse, a differenza dell'area EURO che sostanzialmente agisce come esportatore nei confronti degli USA in relazione a un “paniere” di beni di scambio qualitativamente e quantitativamente più ristretto. La geometrica potenza dell'EURO è una garanzia per gli investitori “fulmine” sulle borse, che muovono ingenti quantitativi di capitale in limitatissime porzioni di tempo, ed è un lasciapassare -se durerà- per l'economia di base europea del prossimo trentennio: ma è ovviamente un freno, nel breve e medio periodo. Per non parlare della crisi immobiliare, quotidianamente più percepibile di quella valutaria: in America, come in Europa succede quasi soltanto in Italia, il “mattone” è il canale di investimento privilegiato di numerosi soggetti più privati che pubblici, e ciò determina la contemporanea presenza sul mercato di due agenti paralizzatori. Una minoranza che non è proprietaria neanche di prima casa per via dell'immiserimento e una minoranza, più esigua, ma in grado di esercitare assai più penetranti pressioni commerciale, che detiene numerosissime unità abitative, in rapida vendita e rapido guadagno nel breve raggio, progressivamente stabile nel tempo. L'immobile deprezza più lentamente e meno pervicacemente di come si apprezza: e al non necessitato può restare invenduto senza particolari pregiudizi economici.
Tutto ciò è correlato alle dinamiche inflattive. I dati mondiali sull'inflazione sono piuttosto leggibili:

-in area asiatica, come in Cina, sta tra il 6 e l'8%, tot inflattivo tipico di Paesi che hanno conosciuto una rapida crescita economica, i cui effetti sia deteriori che ulteriori si svolgono piuttosto lungamente nel tempo. L'inflazione alta significa consumi importanti, trend in crescita, possibilità di accentramento economico;

-in area EURO, sta intorno al 3, con dati alti poco sopra il 4: è storicamente tipico di realtà in cui la deflazione ha costituito la base di un arricchimento moderato, ma non esageratamente sperequato; quando la deflazione introduce in alcuni settori vera e propria recessione, in altri l'inflazione torna a correre (si veda il mercato immobiliare e quello ortofrutticolo: di certo i locatori hanno fatto buoni affari, e sono in tanti casi “economia sommersa”!), non evitando però un impoverimento diffuso. E' la base sostanziale della stag-flazione: stagnazione più crescita dei prezzi;

-nell'area ex sovietica, RUSSIA IN TESTA, svetta sopra il 10, con punte tra 13 e 15: se un'inflazione così alta non porta durevole decrescita economica (risultando in qualche modo sostenibile sul piano macroeconomico), significa che i nuovi ricchi aumentano e aumentano -in modo progressivo e non proporzionale- i loro poteri gestori; così le nuove sacche di povertà, solitamente legate a trasformazioni della miseria, da agrario-rurale a metropolitana e urbana;

-negli Stati Uniti viaggia intorno al 4, quanto basta per restare entro limiti di sostenibilità economica, con movimentazione disarticolata ma reale del mercato. Il degradamento del diritto all'abitazione non impatta in modo irrimediabile sul diritto d'impresa. E' ora chiaro come mai non è affatto la news del giorno la “presunta” crisi del dollaro?

Comitato Politico dei Radicali di Sinistra
Coordinatore regionale della Calabria

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