Stiamo perdendo in Afganistan?

di Marco Vicenzino

Direttore del Global
Strategy Project a Washington, DC. È anche
consigliere strategico dell’Afghanistan
World Foundation.

A quasi sei anni dall’abbattimento del regime dei talebani, il futuro dell’Afghanistan
è ancora molto incerto. Vari gruppi armati hanno recuperato
consenso a causa delle vittime civili e dell’inefficienza del governo
centrale. La comunità internazionale deve comunque restare per rassicurare
la popolazione civile.
Valutare le prospettive a lungo termine dell’Afghanistan richiede a dir poco estrema
cautela. Il numero crescente di vittime civili registrato nel paese ha fortemente indebolito
il sostegno della popolazione locale alla presenza militare internazionale e al
governo centrale; benché tale atteggiamento non debba essere interpretato come un
consenso al ritorno dei talebani, esso riflette un crescente
disincanto e una forte delusione per l’operato
del governo e della comunità internazionale.
IL PERCHÉ DEL SUCCESSO PARZIALE
DELL’OFFENSIVA TALEBANA. All’incessante
sacrificio di vittime innocenti, i governi occidentali hanno risposto accusando i talebani
di esporre volutamente i civili al fuoco e impegnandosi a migliorare il coordinamento
tra le truppe della coalizione e le forze di sicurezza afgane. È però difficile
che le tattiche militari e le condizioni del teatro operativo possano cambiare
in tempi brevi.
Se lo scopo della recente campagna dei talebani – segnata da un’intensificazione nell’estate
2007 delle azioni ostili e degli attentati suicidi – era di attirare l’attenzione in
patria e all’estero, questo apparente successo ha a che fare più con l’assenza di un serio
e determinato impegno internazionale, nonché con la dilagante inefficienza e la
Stiamo perdendo in
Afganistan?

corruzione endemica della classe politica locale, più che con un effettivo rafforzamento
dei talebani che hanno anche subito pesanti sconfitte.
Il 2006 si è rivelato un anno eccezionalmente difficile, che ha visto un sostanziale aumento
della violenza, in particolare nelle regioni meridionali e orientali dell’Afghanistan.
Già all’inizio dell’anno, appariva chiaro come la presenza militare internazionale
in queste aree non fosse all’altezza della situazione; a metà 2006 le truppe della
coalizione hanno così ricevuto rinforzi, principalmente degli Stati Uniti, dal Regno
Unito e dal Canada. I talebani hanno deliberatamente concentrato i loro sforzi sui
contingenti NATO non statunitensi, con l’obiettivo di erodere il consenso per la missione
nei paesi di provenienza dei soldati. Questa tattica sembra aver prodotto alcuni
dei risultati sperati, ma solo parzialmente.
L’esercito afgano, cresciuto di dimensioni, ha lentamente accresciuto la sua efficienza,
ma continua a trovarsi in difficoltà negli scontri diretti con le milizie talebane.
Sebbene l’uccisione del comandante Dadullah, noto e temuto capo militare talebano,
sia stata compiuta da truppe afgane, l’addestramento e il supporto operativo da parte
delle forze NATO sono ancora necessari. L’incompetenza e la corruzione diffuse continuano
ad affliggere le forze di polizia, specialmente a livello distrettuale e nel sud del
paese, dove gli amministratori locali sono spesso coinvolti nel traffico di droga. Nella
provincia meridionale di Helmand si coltiva la maggior parte dell’oppio afgano, che
a sua volta costituisce il 90% dell’offerta mondiale.
Dal 2001 il traffico di droga è cresciuto in misura esponenziale, specialmente nelle
aree controllate dai talebani. In un paese la cui economia dipende principalmente
dall’agricoltura, le promesse colture alternative non sono mai state impiantate
e i contadini sono alla mercé dei signori della guerra, che spesso impongono
con la forza la coltivazione dell’oppio per poi sovvenzionarla. Al tempo stesso, la
domanda di stupefacenti dai paesi ricchi, soprattutto occidentali, continua inesorabile
ad alimentare l’offerta.
Un problema di fondo è che il deterioramento delle condizioni di sicurezza rende molte
aree praticamente inaccessibili agli aiuti internazionali, soprattutto per quanto
concerne gli investimenti per lo sviluppo di infrastrutture.
Nonostante il recente annuncio di un incremento dell’aiuto statunitense (4 miliardi
di dollari per le forze di sicurezza e 1 miliardo per le infrastrutture), la spesa americana
per l’Afghanistan rimane sostanzialmente inferiore rispetto a quella per l’Iraq.
Il settore sanitario, che più direttamente influisce sulla vita della popolazione
afgana, rimane quello in assoluto più trascurato e sottofinanziato. Per conquistare
“le menti e i cuori”, è necessario garantire anche cibo e cure. L’aspettativa di vita
media di un afgano maschio è di 46 anni e quella delle donne è persino inferiore.
La mortalità infantile è fra le più alte del mondo, dato che molte donne afgane partoriscono
senza assistenza medica qualificata. Malgrado i numerosi appelli, il ministro
della Salute non è tuttora in grado di acquistare due elicotteri da soccorso per
assicurare il trasporto di attrezzature mediche e pazienti gravi da e verso le remote
province rurali situate nelle aree montagnose (come Pamira, all’estremo nordest del
paese), inaccessibili via terra o in aeroplano, specialmente durante i rigidi mesi invernali.
E ogni anno si perdono centinaia di vite umane, perlopiù a causa di patologie
facilmente curabili.
RESPONSABILITÀ AFGANE E OCCIDENTALI. Se non altro per limitare il
rischio di vittime civili, è indispensabile migliorare la comunicazione tra le forze internazionali
e il personale di sicurezza afgano. Una maggior visibilità di quest’ultimo
e una presenza internazionale più discreta potrebbero ridurre le tensioni e l’ostilità:
specialmente nelle aree rurali, dove gli stranieri sono spesso sgraditi e l’ignoranza
delle reciproche specificità culturali può trasformare un banale malinteso in un contrasto
dagli esiti tragici.
Inoltre, complica le cose la tendenza generale a etichettare qualsiasi oppositore del
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governo come terrorista, talebano, membro di al Qaeda, sovversivo o simpatizzante
dei terroristi.
Tutto ciò mette in luce la necessità di un potenziamento del “network di intelligence”,
ovvero di una maggiore comprensione del sistema di tribù e clan che domina la vita
quotidiana degli afgani, specie nelle regioni rurali e ancor più nelle aree martoriate
dalla guerra, nel sud e nell’est del paese. Soltanto appurare attentamente i bisogni, le
richieste e le lamentele della popolazione può modificarne le opinioni.
In via di principio, gli afgani sono orgogliosi di aver raggiunto una forma di governo
rappresentativo, ma essa resta ancora un esperimento in fieri. Come dobbiamo sempre
ricordare, sarebbe ingenuo aspettarsi che profondi mutamenti politici avvengano
dal giorno alla notte, e ancor più che ciò produca una democrazia di stile occidentale.
Il presidente Hamid Karzai è schiacciato fra la pressione delle potenze straniere
e le divergenti richieste dei gruppi interni, incluse le opposte fazioni che siedono in
parlamento e i potenti capi delle province. In altri termini, Karzai ha buone intenzioni
ma non può fare molto, e ogni vittima civile accidentale erode ulteriormente il sostegno
di cui gode.
In teoria, l’Afghanistan avrebbe bisogno di un leader in stile Atatürk, che sia in grado,
come il padre della Turchia moderna, di costruire l’unità nazionale e di operare
una trasformazione democratica in circostanze storiche avverse. Nella realtà, il settarismo
estremo e la faziosità diffusa rendono difficile l’operato di qualsiasi leader e riducono
notevolmente le probabilità che possa emergere un “padre della patria”. Il
presidente Karzai viaggia raramente nelle province per il rischio di attentati – per
questo lo chiamano il “sindaco di Kabul” – ma persino nella capitale la sua incolumità
è tutt’altro che garantita. Tuttavia, anche se Karzai disponesse di un apparato di
sicurezza più valido, non è chiaro fino a che punto potrebbe fare di più. In sintesi,
Karzai esercita il ruolo di “mediatore capo” e di sovrintendente delle opposte fazioni
e gruppi. Ogni potenziale successore, a prescindere dalla forza di carattere o dalla capacità
retorica, si scontrerebbe con questi stessi limiti.
L’attuale sistema partitico è poco consolidato e il panorama politico è dominato da coalizioni
altalenanti e alleanze di convenienza. Le caratteristiche del sistema di potere
– basato su accordi informali e sul do ut des – si riflettono in parlamento e ancor
più a livello locale. Ciò che molti in Occidente considerano corruzione, è visto in Afghanistan
come prassi assolutamente normale. Nella migliore delle ipotesi, servirà
molto tempo affinché gli standard occidentali di trasparenza e responsabilità vengano
assimilati dalla società afgana e perché questa sviluppi le articolazioni istituzio-
nali tipiche della società civile. Ma va anche accettata l’eventualità che ciò non avvenga,
o che avvenga in misura molto parziale. I donatori internazionali dovrebbero
tenere a mente questi fattori e mostrare un certo grado di flessibilità, puntando al raggiungimento
di risultati realistici in tempi definiti, fermi restando gli sforzi per un miglioramento
nel lungo termine. Nel lungo periodo, la maggiore minaccia rimane il rischio
di un’irrimediabile perdita di legittimità del governo centrale: dopo grandi
aspettative, la delusione sta minando il nuovo Afghanistan.
In ultima analisi, sarà quindi la capacità del governo centrale di mantenere gli impegni,
o quanto meno di dare l’impressione di mantenerli, che si rivelerà essenziale
nel determinare il futuro del paese. Dal canto suo, la comunità internazionale
può aumentare il proprio impegno in diversi settori, almeno per guadagnare tempo:
è indispensabile rassicurare la popolazione afgana sulla sostenibilità di un serio
impegno della comunità internazionale, essendo ancora vivo il ricordo del periodo
successivo al ritiro sovietico, che vide l’ascesa dei talebani nel disinteresse del
mondo intero.
Come è ben noto dagli aspri dibattiti sui caveat nazionali e sui costi complessivi della
presenza in Afghanistan, il progressivo affievolirsi del sostegno alla presenza militare
in Afghanistan nelle opinioni pubbliche di molti paesi NATO, rende concreto il rischio
che i parlamenti nazionali non prolunghino le missioni oltre i prossimi anni.
QUADRO INTERNAZIONALE E “FRONTE INTERNO” AMERICANO.
L’azione di forze esterne all’Afghanistan provenienti dagli Stati confinanti contribuisce
a complicare enormemente le cose. Vi sono pochi dubbi sul fatto che ingenti forze
talebane e di al Qaeda operino dal territorio pachistano, specialmente dall’impervia
regione di confine. Può darsi che gli Stati Uniti sovrastimino la capacità di controllo
del presidente pakistano Musharraf, alla luce dei recenti sviluppi che ne hanno
messo in luce l’incerta base di consenso.
Detto ciò, è probabile che Musharraf si sottragga volutamente agli impegni presi: in
quest’ottica, egli farebbe il minimo indispensabile per assicurarsi la patente di “alleato
degli Stati Uniti nella guerra al terrorismo” – e dunque la propria sopravvivenza
– ma evitando di drammatizzare le tensioni con gli oppositori religiosi, che vedono
in lui uno strumento degli americani.
È anche probabile che gli elementi più estremisti dell’apparato di sicurezza iraniano
forniscano un qualche appoggio ai talebani, benché in misura nettamente inferiore rispetto
alla guerriglia irachena. L’obiettivo di Teheran non è di favorire il ritorno dei
talebani, nemici giurati dell’Iran, bensì di assicurare loro un sostegno sufficiente a tenere
impegnati gli americani e le forze alleate.
Naturalmente, una variabile cruciale è il “fronte interno” americano, nell’anno delle
elezioni presidenziali. L’Afghanistan, in realtà, continua a ricevere scarsa attenzione
mediatica. Rispetto al conflitto in Iraq, le vittime statunitensi e i costi per il contribuente
americano sono relativamente bassi. Il fatto che gli afgani siano nel complesso
favorevoli alla presenza straniera e si mostrino teoricamente disposti ad assumersi
le loro responsabilità, rende il conflitto molto meno controverso di quello iracheno.
Per chi non si interessa di affari internazionali, la guerra afgana sembra quasi appartenere
al passato. Ciò, tra l’altro, ha scavato un profondo divario fra l’opinione pubblica
americana e i membri delle forze armate, in particolare l’esercito e i Marines,
che operano sul campo con compiti di combattimento.
I leader politici americani di entrambi gli schieramenti hanno però il dovere di aprire
un più ampio confronto con l’opinione pubblica sul conflitto in Afghanistan – per
la semplice ragione che gli eventi attuali avranno delle conseguenze sulla sicurezza
nazionale americana, sulla stabilità internazionale. Soprattutto, deve essere chiaro
che la lotta contro il terrorismo, in Afghanistan come in altre parti del mondo, richiederà
l’impegno e le risorse di almeno una generazione.
Il ruolo fondamentale di una classe politica responsabile è quello di spiegare le conseguenze
di un fallimento in Afghanistan e di restituire credibilità alla missione garantendo
l’impegno americano – e internazionale – nel lungo termine. Con un Pakistan
sempre più instabile a est e un Iran sempre più assertivo a ovest, gli Stati Uniti
e i loro alleati non possono permettersi di perdere l’Afghanistan.

Questo articolo nasce da una missione in Afghanistan condotta dall’autore nel 2007, in qualità di consulente
dell’Afghanistan World Foundation.

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