Così lontane eppure legate da leggi elettorali che trascurano la gente: Cuba e l’ Italia dovrebbero riscriverle, ma non è facile finché i signori del potere sono impegnati a blindare il potere. Calderoli, Berlusconi, Fini e Fidel si affidano alle cupole personali; segreterie di partiti che stabiliscono chi deve andare in parlamento. I dibattiti diventano coreografie di contorno; scelte già prese e il popolo deve adattarsi. Con qualche differenza speriamo non provvisoria: all’Avana il partito è unico; nella destra italiana unificato dalla voglia delle poltrone che contano. Tv, radio e giornali in poche mani. Del sistema perverso italiano si parla tanto, mentre la Cuba del Fidel malato è sparita dalle nostre cronache agitate mentre sta per decidere come cambiare il futuro senza tradire il passato. Bella scommessa. Anche perché il risultato delle elezioni di sette giorni fa non aiuta a capire cosa succederà il 5 marzo quando il grande assente, più che mai presente nelle pieghe della convalescenza senza fine, dovrà decidere se restare presidente del consiglio dei ministri e del consiglio di stato, riunendo ogni potere come negli ultimi trent’anni, oppure lasciare le redini per interpretare il ruolo di suggeritore ombra. Può essere la decisione probabile ma le elezioni appena finite non hanno permesso di capire cosa succede.
Perché la macchina elettorale è pietrificata nel passato. Ha votato il 96 per cento degli elettori, affluenza travolgente anche se il voto non è obbligatorio. Proprio Fidel aveva insistito: . Lo ripete dal 1976 quando gli occhiali di Mosca vigilavano sulle scelte personali, eppure, svaniti i russi, oggi il risultato dà gli stessi numeri. Con un futuro ancora misterioso nessuno se l’è sentita di voltare le spalle. Non si sa mai. Il 91 per cento degli elettori ha confermato . Maggioranza che impressiona le democrazie così dette mature. Neppure una scheda contraria: bianche, nulle, errori veniali. Con quali prospettive le regole di una costituzione disegnata sulla costituzione della Bulgaria comunista potrà aprire il paese al cambiamento che Raul Castro annuncia, e che Fidel ritiene necessario ? Impedire la presenza di un secondo partito continua ad essere il tormentone nascosto dietro le paure che l’oppressione del grande vicino impone da mezzo secolo. Ma l’opposizione interna è ormai diversa dall’ambiguità degli Elisardo Sanchez, difensore dei diritti umani e informatore della polizia segreta di Castro; diversa dall’arroganza degli ultras di Miami sotto tutela Cia. Sulla scena sono apparsi intellettuali determinati a respingere . Solo i cubani di Cuba – ripetono – possono arricchire la convivenza civile. Morùa, socialdemocratico ( nero come Obama ) e Payà, socialcristiano, hanno avuto la libertà di trasmettere queste idee, di dibatterle ( sia pure vigilati), di discorrerne con gli stranieri di passaggio. Il piano Varela di Payà è stato firmato alle luce del sole da 14 mila cittadini e presentato all’università dell’Avana da Jimmy Carter, Fidel in prima fila. Ma non è successo niente. Via Carter, la proposta dell’opposizione democratica è affogata nell’imbuto dell’ufficialità. Morùa ha 40 anni. Ha vissuto a Roma, ospite dei Ds; ha viaggiato in Europa accolto dai partiti socialisti francesi e spagnoli. Si sente figlio della cultura del partito unico nel quale è cresciuto, ma per salvare le idee che sostengono uguaglianza e diritti, ritiene necessario allargare le voci. Una sola voce non basta, ormai.
Nel passaggio delle generazioni, un secondo partito farebbe comodo al governo di Raul e Fidel. Il dibattito pubblico libererebbe Cuba dai sospetti avvelenati, rafforzando la scelta di novità che ridicolizzerebbero l’oltranzismo autistico dei falchi di Bush. La Casa Bianca sta per cambiare inquilino. Per una Cuba appena, appena pluralistica sarebbe meno complicato affrontare il dialogo per difendere i risultati sociali della sua rivoluzione. Anni fa hanno fatto sognare la folla delle americhe di Nixon, Kissinger, Reagan, squadre della morte, generali alla Videla e Pinochet. Disperazione del non futuro. Mentre a Cuba si aprivano scuole, ospedali, case, sanità per tutti. Fata morgana. Purtroppo anche le fate perdono i lustrini se non capiscono i tempi. Adesso Raul annuncia che i dogmi del centralismo ossessivo dello stato sono superati. Vuole liberare la voglia di fare; combattere la corruzione e la burocrazia dimenticate dai russi, liquame nel quale affoga il paese. E allora, terra ai contadini, mercato quasi libero, artigiani e piccole imprese autorizzate a competere in un mercato che nel disordine della clandestinità più o meno tollerata, sopravvive come può.. Aprire la mani, si dice, e privatizzare con giudizio: modello cinese. I politici cinesi di passaggio all’Avana continuano a raccomandarlo. Resistono i conservatori invecchiati nel dogma dell’assedio Usa. Anche Pechino- fanno notare – non rinuncia al partito unico. Ma Cuba è immersa nel mondo latino senza le risorse di uno stato-continente. Col suo miliardo di clienti, la Cina incanta ogni economia in affanno. E le democrazie europee vedono ciò che è conveniente vedere; la vita attorno resta sfuocata. Meglio girare la testa e far girare gli affari.
Nell’America del Sud, l’Avana è stata il simbolo di una dignità impossibile nei feudi delle transnazionali. Ha stimolato gli entusiasmi con riforme sociali che cancellavano le disuguaglianze terrificanti ancora non risolte dal Brasile e dalle altre nazioni del continente. Ma il tempo ha congelato gli entusiasmi lasciandoli ingrigire nella non informazione che pretende di imporre il limbo della non conoscenza.
Il continente latino sta cambiando le bandiere. L’epopea armata è solo il ricordo di Guevara o il medioevo delle Farc. L’esempio di Cuba ha nutrito generazioni di politici oggi al potere: Brasile, Nicaragua, Equador, Venezuela di Chavez. Il quale Chavez, figlio spirituale di Fidel, si è misurato con le opposizioni affidando libera scelta agli elettori. Tante vittorie, ma ha perso il referendum che non convinceva una parte della folla in marcia nel suo nome. Nessun dramma malgrado il batti e ribatti dell’amministrazione Bush: la forza della democrazia gli garantisce il governo fino al 2013. Poi il suo partito dovrà rimeritarlo. La democrazia pluralista ha permesso il ritorno pasticciato di Ortega alla presidenza del Nicaragua, acrobazie mastelliane tra chiesa e stato, e gli Usa sparano a zero. Il Nicaragua è un paese carta velina: fragilissimo, basta un soffio, i partiti sono tanti eppure Ortega ce l’ha fatta. Correa ha vinto le elezioni in Ecuador senza imporre niente. La gente lo ha ascoltato e lo ha votato. Per non parlare di Lula, Evo Morales, Bachelet, Kirchner, fino a ieri democrazie mascherate nel feudo dei grandi capitali, oggi libere di giocarsi il consenso malgrado trappole e preoccupazioni. Ombre americane manovrano per impedirlo scontrandosi con la determinazione delle folle che insistono per una giustizia sociale non rimandabile. Nessuno torna indietro.
Cuba non è ormai importante nella strategia dei paesi attorno. Niente missili, esercito impegnato a gestire il turismo, vecchi armi che Putin non usa più. Resta l’icona di un passato; anima lontana degli ex senza speranza. Ne raccontano il mito con la passione dei reduci del ’68. Milioni di lettori-spettatori conservano l’emozione mediatica che trasforma l’Avana in un posto surreale. Rosso o nero. A favore o contro. Nessuna sfumatura. Quasi impossibile discuterne: dogma contro dogma ieri come oggi, mentre la stupidità dell’embargo sta diventando una scatola vuota. Ogni anno l’Avana importa direttamente dagli Stati Uniti 600 milioni di dollari di alimenti e medicinali, tanto zucchero perché la zuccheriera del mondo ha cambiato vocazione: preferisce comprarlo dai produttori Mid West.
Se Castro lascerà il potere, chi ne prenderà il posto non è facile capire. Nessuna ipotesi alla luce del sole. Le catacombe mantengono i segreti. Dopo il 5 marzo e un periodo di decompressione con Raul sulla poltrona di supplente, potrebbe affacciarsi la generazione dei cinquantenni: Carlos Lage, pediatra e ministro dell’economia, oggi vice presidente; o Felipe Perez Roque, cancelliere e per vent’anni segretario di Fidel. Ricardo Alarcon, già ambasciatore all’Onu, guida l’Assemblea del Popolo: riavrà la sua poltrona. Sta compiendo 70 anni e fa sapere che darà subito le dimissioni. Come sempre, solo la voce di una voce perché dalle segrete dell’Avana non esce niente. La sola novità visibile sono le donne. Quasi la metà dei 614 deputati. Non era mai successo. Chissà se saranno le donne o i cinquantenni ad affrontare la scommessa di normalizzare il paese con un socialismo normale riscrivendo le regole di una democrazia condivisa che contempli l’ opposizione. Chissà se l’Avana del 96 per cento e la Roma imbavagliata dalle furbizie della carta bulgara di Calderoli, vorranno ascoltare i problemi della gente, tutta la gente, allargando lo sguardo oltre le famiglie naturali e politiche che devotamente non mollano il potere.(Arcoiris)
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