AUTOIPNOSI COLLETTIVA

Le carceri si stanno nuovamente riempiendo, i detenuti stanno riconsolidando la percentuale di sovraffollamento precedente alla concessione dell’indulto.
Manca la legalità, non c’è sufficiente sicurezza, occorre costruire nuove galere, c’è bisogno di interventi e denaro. Effettivamente occorrono i denari, perché senza quelli non esiste possibilità di disegnare alcun progetto attuale e futuro, senza denari la teoria non configura alcuna pratica.
Possiamo redigere alti muri, edificare nuovi molok tra le nebbie, inasprire pene e sanzioni, moltiplicare per dieci i tutori dell’ordine, ma a quale scopo? Per vincere l’illegalità diffusa? Non è una cella oscura, una disciplina sciocca e feroce a far mettere in discussione il proprio vissuto a un detenuto, si otterrà l’esatto contrario, un’ammaestramento che prima o poi deflagrerà.
Non è il carcere la soluzione a disfunzioni prettamente politiche, eppure ha ripreso a funzionare come una discarica abusiva, come una fabbrica di criminalità, in un paese dove le droghe la fanno in barba alle leggi, un paese che crede nella giustizia e nella legalità, finchè queste due coordinate sociali non vanno a confliggere con i nostri interessi, attraverso una personalissima interpretazione della conformità alle regole.
Una verità conclamata sta nel sostenere che non è il carcere a poter risolvere le problematiche della giustizia e della sicurezza, anzi confidando sulla sola capacità di intimidazione e violenza prisonizzante, si accentuano le condizioni per mantenere la persona detenuta a un tempo bloccato, al giorno del reato.
Così facendo non esiste più l’uomo e la sua colpa, né la necessità di elaborare una rivisitazione del proprio vissuto, in prossimità di un vero mutamento interiore, per cui prevale il passaggio non c’è alcuna spinta alla compassione.
Nessuno o quasi si preoccupa di non fare fallire sul nascere qualsiasi progetto tendente al recupero della persona detenuta, superando la pratica della detenzione fine a se stessa, che mantiene colme le celle, senza favorire alcun auspicato cambiamento, in una esecuzione penale che riconosce come unico strumento di riordine il carcere.
Le celle si riempiono di lunghi monologhi di follia lucida, in un confine inteso come spazio e soglia di non appartenenza, un “prevaricamente” altro, specificatamente un luogo ove detenere-contenere i risultati di un disagio sociale galoppante, che non è sintesi di volontà criminale, di contrapposizione ideologica, bensì di marginalità e esclusione.

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