Il secolo degli opposti

Il disequilibrio definitivo.

Il Novecento è stato il secolo degli estremi, degli opposti, mai capaci di un equilibrio definitivo, quali gli archetipi di democrazia e dittatura, ricchezza e miseria, progresso e barbarie. L’ambivalenza più devastante, il paradosso che ancora oggi ci paralizza è la contraddizione tra l’onnipotenza dei mezzi tecnici a disposizione e la drammatica incapacità dimostrata dal secolo di raggiungere, senza pagare un prezzo sproporzionato, tutti i propri fini etici, politici, sociali.
Il Novecento è stato il secolo dell’homo faber, quello in cui l’uomo è stato ridotto alla sua funzione produttiva ed il mondo a realtà fabbricata: sulla centralità del fare è stata immaginata la sua antropologia, sulla pervasività della produzione è stata ridisegnata la sua società, sulla totalità del lavoro è stata rifondata la sua etica. Forse nel gene dell’homo faber sono da ricercare le radici del male profondo che ha minato il secolo. Da questo punto di vista è senza dubbio Auschwitz il luogo estremo di caduta, dove l’uomo fu ridotto a materia di lavoro, usato e distrutto come cosa. Ma è dentro la vicenda del comunismo novecentesco che occorre guardare per vedere la natura profonda del secolo e le sue contraddizioni laceranti: nato come aspirazione di riscatto dell’uomo dalla natura di merce ha finito col generare un universo interamente centrato nel suo profilo di società del lavoro totale, macchina composta da uomini ridotti alle loro funzioni produttive.
I deliri dell’homo faber in chiave metaforica raccontano la marcia di conquista, da parte del lavoro, dell’intero universo sociale nell’epoca fordista. Al centro della riflessione abbiamo perciò la società del lavoro totale nella quale il tasso di socialità, ossia la capacità di stabilire relazioni autonome e di esercitare controllo sul proprio agire collettivo, è percepito ai minimi storici.
Il Novecento sembra trovare la chiave della propria essenza nell’evento che costituirà l’atto di nascita del secolo, la Grande Guerra.
Il secolo passato è stato il più distruttivo, ma non è solo nella dimensione quantitativa del massacro che ritroviamo la violenza come tratto distintivo dell’epoca, piuttosto nella sua dimensione qualitativa. La violenza tecnicizzata eppure selvaggia sofisticatezza tecnica del delirio politico praticato nel cuore dell’Europa del nazismo e del fascismo. La violenza ha dato vita a una sistematica “eterogenesi dei fini” inaspettata in un’epoca che ha fatto della calcolabilità il proprio dogma: esiste una contraddizione tra la natura programmata e pianificata della sua strumentazione e quella incontrollata dei suoi esiti, rivelando come gli attori della storia quasi non fossero capaci di prevedere le conseguenze delle proprie azioni.

Il comunismo, Auschwitz e Hiroshima

Questi tre casi esemplari hanno segnato nel profondo l’identità del secolo. Il comunismo ha avuto un rapporto fondante, non episodico, sistematico con l’uso della violenza come mezzo di esercizio e di mantenimento del potere. Tutto ciò contro cui aveva identificato se stesso fino a fare della sua abolizione parte costitutiva del proprio fine (l’oppressione, la costrizione, il dominio poliziesco) è divenuto mezzo normale della sua realtà storica e per questa via ne ha divorato il fine. L’esperienza vissuta del socialismo reale ha finito con il decostruire l’identità stessa del comunismo ideale e costituisce un caso esemplare di eterogenesi dei fini.
Nel campo di sterminio non sussiste contraddizione fra distruttività dei mezzi e positività dei fini, ma, al contrario, piena identificazione tra strumenti impiegati e scopi dichiarati. Ciò che lo rende un riferimento etico negativo assoluto sta nel carattere finale dello sterminio, nell’essere stato fine a se stesso, tramite l’annientamento radicale dell’essere umano che non è stato un mezzo, sia pur inaccettabile, per uno scopo ulteriore, ma un valore in sé. Anche in questo caso l’esito è stato l’annientamento dell’attore che da questo agire avrebbe dovuto essere potenziato: l’identità tedesca, la potenza nazionale.
La dimensione dell’eterogenesi dei fini si mostra fin dall’inizio nelle fratture della volontà del gruppo di scienziati che volevano costruire l’arma adeguata per distruggere il nazismo e che finirono insieme per produrre il tiranno tecnologico assoluto. L’aspetto paradossale dell’arma atomica sta nel fatto di essere un mezzo destinato ad annullarsi come tale, quale strumento razionalmente concepito per essere usato, e nel momento stesso del suo uso è condannato dunque a porsi come fine assoluto. L’argomentazione secondo cui l’arma atomica avrebbe pur sempre un uso strumentale, quello di produrre il cosiddetto “equilibrio del terrore” è stato evidenziato come numero di guerre scoppiate sotto l’ombrello atomico, crescendo in modo esponenziale. Quelle atomiche sono armi la cui efficacia non dipende dal loro utilizzo, ma solo dalla loro esistenza: l’utilità di questo prodotto novecentesco consiste perciò nel loro permanere allo stato potenziale e finirebbe nel momento in cui tale potenzialità si traducesse in atto.
Il caso Eichmann, evento in cui si tentò di scavare nel labirinto del male assoluto con gli strumenti giuridici, ricavandone, tra lo sconcerto, un’immagine opaca, sproporzionata rispetto alla realtà dell’orrore consumato. Durante il processo di Gerusalemme l’imputato Eichmann, uno dei maggiori responsabili della Shoah, mostra quello che può essere definito la banalità del male. L’uomo che avrebbe dovuto incarnare il male assoluto appariva invece come un uomo desolatamente comune, senza qualità e questa sua normalità risulta spaventosa perché indica come questo nuovo tipo di criminale commette atrocità in circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi che agisce male. Nel caso Eichmann si mostra la tendenza, ben più generale, alla deresponsabilizzazione propria dell’agire in contesti altamente organizzati e tecnicizzati. Questo svuotamento del soggetto come sede di giudizio e di scelta e la vittoria della ragione tecnologica sulla verità costituiscono la vera apocalisse culturale del nostro tempo.

Alle radici del mostruoso

Per quale ragione il Novecento che aveva collocato la prevedibilità al vertice della propria scala di valori, finisce in realtà per avvolgersi in una incongruenza radicale fra mezzi e fini?
Come mai si rivela incapace di prevedere e controllare gli esiti del proprio operare?
Nel tentativo di dare un corpo al mostruoso, Anders, propone due piste di lettura delle due radici del mostruoso. La prima fa capo al concetto di discrepanza, di sproporzione fra la capacità produttiva e la capacità immaginativa e la seguente caduta che ciò implica, il rimpicciolimento dell’uomo e della sua umanità. Cosicchè il vizio capitale del Novecento, la radice della banalità del male che lo caratterizza, starebbe nel conflitto tra la smisuratezza disumana degli effetti generati dall’apparato strumentale a disposizione e la limitatezza umana degli strumenti soggettivi di giudizio: divario perciò tra la potenza dell’oggetto prodotto e l’impotenza del soggetto produttore. La seconda radice si incentra sull’idea di macchinazione del mondo odierno: il mondo ridotto ad apparato, a insieme di parti interdipendenti nel quale la condizione privilegiata è quella della funzionalità produttiva.
Hitler progetta di creare una nuova razza ex nihilo, questa è la sua aspirazione davvero non diabolica, ma una radicale identificazione della sua immagine con quella della divinità che crea dal niente. La sua assoluta e dimostrata indifferenza nei confronti degli stermini degli stessi tedeschi. La nuova razza per Hitler deve nascere dal nulla. Nessuna dittatura, nessuna strage perpetrate nella storia si sono mai poste una simile radicale intenzione. Era un agnosticismo assolutamente radicale, di un paganesimo inaudito, unico e ciò rende necessario per i posteri ripetersi sempre la domanda, senza mai banalizzarla all’interno di una Storia: cos’è il nazionalsocialismo?

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