• Lettere al Corriere
sergio romano
Il dibattito e il referendum sulla legge elettorale
A metà degli anni Ottanta, in una Francia che era sul punto di cancellare le riforme di de Gaulle e di tornare alla quarta repubblica, Maurice Duverger scrisse un bellissimo libro intitolato «La nostalgie de l'impuissance». Spiegava che il ceto politico è periodicamente assalito da questa terribile sindrome, che lo spinge a distruggere ogni meccanismo di stabilità e di efficienza e a tornare all'immobilismo e alla incapacità decisionale; sistema nefasto per il Paese, ma che assicura ai politici la inamovibilità. La politica italiana è oggi dominata dalla «nostalgia dell'impotenza». Proprio per questo sono rimasto colpito dall'appello in difesa del maggioritario che, su iniziativa di Franco Debenedetti, trentaquattro personalità dell'economia e della cultura hanno pubblicato sul Sole 24 Ore
del 6 dicembre. Vi si leggono concetti chiarissimi, che tanti vogliono dimenticare: «Del sistema proporzionale abbiamo sperimentato opacità, instabilità e ingovernabilità. Dissesti nei conti pubblici e lacerazione della correttezza amministrativa». Lei pensa che questo gesto scuoterà la classe politica, la spingerà a considerare che solo una riforma in senso veramente maggioritario e una riforma costituzionale che assicuri al governo stabilità e potere decisionale (penso al «sindaco d'Italia») possa fare uscire l'Italia dall'impasse? Oppure spetterà ancora una volta ai cittadini, come nel '91 e nel '93, scegliere tra la paralisi e il balzo in avanti?
Mario Segni , msegni@tin.it
Caro Segni,
In un sistema politico frammentato come quello italiano ogni progetto di legge elettorale nasconde un disegno. I negoziatori sono i partiti, e ciascuno di essi è disposto a prendere in considerazione soltanto la legge che gli permetterà di sopravvivere e, possibilmente, conquistare qualche seggio in più. Il maggioritario avrebbe due effetti positivi: permetterebbe agli elettori di scegliere i loro rappresentanti e semplificherebbe considerevolmente il quadro della politica nazionale. Ma è questa probabilmente la ragione per cui ha scarse possibilità di essere approvato da deputati e senatori che con quel sistema non sarebbero rieletti. In questa situazione, quindi, la scelta non è fra il proporzionale e il maggioritario, ma fra varie forme di proporzionale. Ed è lecito immaginare che la nuova legge, se verrà approvata prima del referendum di cui lei è promotore, sarà il risultato di un laborioso compromesso destinato ad accontentare il maggior numero possibile di forze politiche. È difficile immaginare che una tale legge, confezionata per piacere alla maggioranza, serva a meglio governare il Paese. Luca Ricolfi ha ragione quando sostiene, come ha fatto in un articolo apparso ne La Stampa dell'11 dicembre, che tutto dipende in ultima analisi dalla qualità della classe politica. La nostra, purtroppo, sembra pensare a se stessa piuttosto che all'interesse generale della nazione.
Rimane, per fortuna, il referendum abrogativo, voluto da ottocentomila italiani per la modifica della legge elettorale esistente. Se gli italiani lo approvassero, il premio di maggioranza andrebbe al partito maggiormente votato anziché alla coalizione, come nella legge esistente. E la soglia di sbarramento sarebbe al 4 per cento, senza eccezioni. Può darsi che qualcuno cerchi di aggirare l'ostacolo trasformando la coalizione in un partito fittizio, destinato a sciogliersi dopo l'inizio della legislatura. E può darsi che il 4 per cento non basti a sveltire il Parlamento. Ma il referendum sarebbe un sasso nello stagno della politica nazionale. Resto comunque convinto, caro Segni, che la strada maestra per la modifica del sistema politico non sia tanto la legge elettorale quanto la riforma della Costituzione. Un premier più autorevole e dotato di maggiori poteri è probabilmente il solo modo per eliminare quella «nostalgia dell'impotenza» che garantisce la sopravvivenza dei politici e il declino del Paese.