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La tutela dell’attenzione

Sto scrivendo a Marco, conosciuto nell'oratorio di un mio amico prete.
Marco, con la sua storia per molti versi già scritta in tanti ieri che non esistono.
Marco, che a scuola non ci va e le poche volte che è presente ha in tasca il coltello.
Marco, che frequenta i più grandi e pesta giù duro per essere riconosciuto.
Marco che…mi ricorda qualcuno.
“Io non ho paura della prigione”, mi ha detto. E io gli ho chiesto: “ Perché non hai paura? “ Perché non possono arrestarmi alla mia età, e poi non mi prenderanno mai, sono troppo furbo io”.
“Eppure è sempre il più furbo che alla fine della corsa pagherà per tutti; guarda me: sebbene per qualche giorno sia qui con te, sono invecchiato dentro come il pezzo di carcere che mi ha sepolto”.
” Mi piace fare casino e stare in giro per Milano fino a tardi, ogni tanto dare un calcio a qualche rompi e a scuola fare impazzire i miei compagni e i professori. Che male c'è a prendere un cappellino o un giubbotto a chi ha più soldi di me?”.
Marco, il disadattato, ha trovato nel rischio e nella provocazione la risposta più immediata alla propria sofferenza.
Marco che teme il domani.
Ho l'impressione di avere fermato il tempo e, illudendomi, mi travesto per un attimo da adolescente per farmi accettare da quella tigre addormentata.
Non lo dice, ma glielo leggo negli occhi: é stanco di tante persone pronte a dargli consigli.
I grandi, gli adulti sempre pronti a insegnargli dove sta il bianco e dove il nero, senza mai consentirgli di approfondire il grigio.
” Ho ragione io “, grida, apostrofando malamente un ragazzo di vent’anni che cerca di indurlo a più miti comportamenti.
Mi accorgo che é diventato nuovamente lo strumento di studio della nostra coscienza, infatti il ragazzo che prima interloquiva con affabile cortesia, ora rivendica il proprio ruolo di maestro maturo e responsabile, ma non in forza dei valori che tenta di trasmettergli, bensì perché non si ritiene rispettato abbastanza da quel pulcino agguerrito.
Marco e il suo rifugio di miti e dei suoi pari, spazio vitale alla trasgressione che si rinnova, si rigenera all'ombra dell'indifferenza, in uno spazio costretto dove tutto può esser condiviso.
Sto scrivendo a Marco, forse questo incontro consente di indagare di più in noi stessi, nelle parole spese male, e la conclusione che mi arriva direttamente sul muso, è che i tanti Marco di questa periferia esistenziale non debbono poi tanto meravigliare né sbalordire per la loro durezza, alla luce della nostra inadeguatezza ad ascoltare, noi così ben protetti dalle nostre imperturbabili aspettative.
“Avevo tredici anni e già cominciavo a intuire cosa voleva dire vivere in solitudine, senza stupore giunse il primo arresto, mi portarono in un carcere per minorenni…”.
Riaffiorano pensieri di un mio testo teatrale che non eviteranno a nessuno di andare ripetutamente a sbattere in un vicolo cieco, ma, chissà, potrebbero indurre alla necessità di una tutela dell'attenzione comprensiva, sensibile.

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