INTERVISTA A RENZO SALVI (Capo Progetto di Rai Educational)

Come colloca la Sua storia di formazione e le esperienze in Rai, anche come rappresentante politico di un partito, ed in particolar modo in RAI Educational, rispetto al Suo impegno sociale e culturale?

Non sono certamente in Rai come rappresentante politico di un partito o di una posizione politica, anche se ho fatto molta attività nel sociale, nelle Acli e, prima ancora, in quello che un tempo si chiamava l’area dell’aggiornamento conciliare negli anni successivi al Vaticano II. Il mio arrivo in Rai, venticinque anni or sono, deriva da un bando di concorso mirato ad una figura professionale completamente nuova, quella del programmista/regista, dall’impostazione vastissima (va dall’ideazione, all’organizzazione, alla regia), in cui – semmai – mi si è presentata la possibilità di travasare tanta parte della mia storia personale e culturale precedente. Una storia nella quale mi ero trovato a scrivere su riviste quali Rocca, Testimonianze, Il Gallo, Il Tetto, per un insieme di testate dell’area cattolica conciliare, a volte critica, creativa o del dissenso che, a me e ad altri, hanno consentito di attraversare esperienze che spaziavano dall’aggiornamento conciliare all’associazionismo cattolico tradizionale, alle Acli, con qualcuno di noi più orientato ai Cristiani per il socialismo. Molto di quello che era stato accumulato attraverso questo tipo di attività – anche con grandi convegni internazionali con figure che andavano da Raniero La Valle, a Pietro Ingrao, a Bartolomeo Sorge, a Gianni Baget Bozzo, a Clemente Riva … – è stato travasato anche dentro la logica dei programmi televisivi, ma non tanto perché mi sentissi rappresentante di una tendenza culturale o politica ma perché, nei fatti, facendo comunicazione sociale e televisiva mi portavo dentro l’esito di quella cultura e quella rete di contatti. Questo tessuto culturale ha toccato in RAI una molteplicità di settori, da rubriche di carattere sociale e sindacale a programmi specifici sul mercato del lavoro, a programmi di ambito religioso.
Sussisteva, allora, una possibilità di palinsesto, una disponibilità di raccogliere dal sociale ospitare proposte editoriali e professionalità esterne (e interne) che poi si componevano dentro i programmi. L’atteggiamento – in quel tempo, in Rai – era di dialogo, di apertura, di confronto, forse perché provenivamo dagli anni del Paese “rimescolato” (per dire con Aldo Moro), dove le culture si contaminavano tra loro; ed anche in Rai, con molta apertura da parte di chi dirigeva allora l’azienda, sussisteva la possibilità di essere assolutamente “ecumenici” e magari su qualche particolarità di programma, di essere, in apparenza, anche un po’ “settari” o un po’ “fissati” su alcune convinzioni.
La questione, naturalmente, non riguarda il solo campo della programmazione di carattere sociale o politico/sindacale … Quando è nato L’Albero Azzurro, un programma per bambini molto piccoli “pensato” nei primi anni Novanta, siamo riusciti a costruire un gruppo molto eterogeneo al suo interno, ma molto mirato ad alcuni obiettivi, volto tutto insieme, a proporre un progetto che fosse molto arricchente per i bambini, per le famiglie, di supporto alle scuole … Le culture sussistevano e coesistevano tutte, con tutte le attenzioni per l’infanzia. Quanto di questo approccio e di questa visione venisse – a me, almeno – dall’essere partecipe di una visione sorgente dal cristianesimo “di Papa Giovanni” è una questione che tuttora mi rimane aperta e un po’ indecifrabile.
Tutti noi in realtà portiamo con noi una storia di vita quando ci troviamo dentro un quadro professionale. Poi la modalità con cui si interpreta il vissuto dipende dalle caratteristiche personali e dalle contingenze. In questo periodo sto scrivendo un libro che vorrebbe essere uno scorrimento della capacità di comunicazione di Padre David Maria Turoldo, attraverso tutto l’insieme dei sistemi comunicativi che ha utilizzato nella sua vita: dal cinema, al teatro, dalla poesia, alla televisione, dalla frequentazione della radio, al comizio, dalla predicazione da un pulpito reale ad uno televisivo. Dalle indagini negli archivi della radiofonia relativi all’epoca degli anni Cinquanta/Sessanta, mi si è rivelata – per tornare alla domanda iniziale – una realtà inattesa della RAI di quel tempo: era un’azienda estremamente aperta, non in senso tollerante, ma in senso propositivo, di apertura mentale; e lo era anche nei confronti di voci come quella di Padre Turoldo che si trovavano, allora, un po’ margini della stessa chiesa. Però evidentemente la RAI consentiva una apertura di questo genere perché cercava di rappresentare molto del Paese di quegli anni, anche se l’immagine che abbiamo della RAI di quel tempo risulta monoculturale, di una realtà molto schematica ed asservita al governo.

Come può il centro sinistra far fronte alle nuove ed incombenti sfide dettate da una società e da un mondo sempre più globalizzanti, segnati da diversità multiculturali e dalla coesistenza di variegate culture e differenti modi di essere e di pensare?

Il centrosinistra ha davanti dei compiti uguali a quelli di tutte le altre forze politiche. E si tratta di problemi – anche questi della globalizzazione – che non sono neppure del tutto nuovi perché l’interconnessione, l’internazionalizzazione delle situazioni di crisi e dell’economia è un dato reale ormai da oltre trent’anni. Le sfide sono quelle colte, certo soltanto nella loro radice, da Iohn Kennedy, nel discorso di accettazione della Presidenza degli Stati Uniti davanti alla Convention democratica del 1960; quell’intervento già elencava una sequenza di problemi come la pace e la guerra, la miseria e il surplus, il benessere e la malattia che, al di là del loro essere eterni, si configurano in modo nuovo e più interconnesso sin da quegli anni.
A livello planetario si pone il problema delle risorse che sono vastissime, ma non inesauribili, allocate secondo logiche di geografia e consumate secondo logiche di potere. Sussiste il problema di garantire quello che continuiamo a chiamare sottosviluppo che, in realtà, è mancato sviluppo, perché i paesi sottosviluppati non sono i paesi in via di sviluppo: se andiamo a considerare e interpretare tutti i dati inerenti la questione, sussistono dei dislivelli che si aprono continuamente tra il centro del mondo, gli USA, L’Europa, alcune zone dell’Asia e tutta una serie di territori considerati Sud del mondo, che chiaramente faticano a trovare una propria via al benessere per i propri cittadini, di decoro e di decenza per la sopravvivenza. Il centrosinistra e l’Ulivo, pensando a livello europeo, devono porsi il problema di cosa può fare un grande continente, come l’Europa che ha tante divisioni al suo interno, ma anche tante ricchezze, nel porsi come un interlocutore per molte di quelle parti del mondo che possono essere aiutate a compiere una serie di passi in avanti, probabilmente giocando anche delle partite inattese o quantomeno inusuali.
Cercare di aumentare e incrementare fortemente lo sviluppo economico e il progresso sociale in alcune zone del mondo può aiutare a gestire anche diversamente i flussi migratori che si muovono sulle scacchiere intercontinentali, per esempio. Da un certo punto di vista non è uno sguardo diverso da quello di chi dice di aiutarli da casa loro. Ma il discorso nostro è un altro: facciamo in modo che tutto quello che può essere salvato, aiutato a crescere, fatto diventare importante positivo e di progresso globale avvenga nella maggior quantità possibile di territori vicini o lontani a noi, in modo tale che non ci sia bisogno di un grande movimento migratorio che anche quando dovesse avere esiti positivi, ha come esito negativo di partenza quello di strappare radici, sfaldare famiglie, distrugge comunità, rinunciare a competenze che potrebbero essere utili in loco.
Giuliano Amato adesso è chiamato a scrivere un programma dell’Ulivo, in vista delle elezioni europee che potrebbe davvero diventare una mappa di riferimento per tutto quel mondo che in Europa si può riconoscere in una logica come quella dell’Ulivo. La speranza è che si possa giungere, in Europa, ad una logica di visione che sia, al tempo stesso, ampia e concreta: con l’indicazione di passi praticabili. Il problema non è scrivere una sequenza di buone intenzioni; la questione fondamentale, anzi, consiste nel dire quali sono i passi successivi praticabili e cominciare a praticarli.
La multicultura, poi … Non la conosciamo nella sua realtà globalizzante: cominciamo soltanto a riceverla in una realtà Europea che accoglie culture altre, etnie altre, fedi religiose altre. Di fronte a questo io credo che in Europa difficilmente si potrà mettere in discussione la sequenza dei principi della tolleranza accanto, però, a quelli della Rivoluzione francese che affermano anche una certa modalità di apertura alle fedi altre, ma soprattutto un'eguaglianza di fondo che deve riguardare la parità dei sessi, la diversità delle culture, e tutto quello che quello che l'Europa è stato un duro e difficile avanzamento sulla crescita dei diritti civili per l'affermazione di quel concetto di “persona” che proviene da diversi filoni storici (quello ebraico, greco-romano…) poi riassunti dal flusso del cristianesimo e successivamente ripresi da un illuminismo, per certi versi, in una grande secolarizzazione della visione cristiana, che non a caso ha ripreso il concetto per cui gli uomini sono tutti uguali.
La realtà multiculturale, non come risposta a qualcosa che arriva in “casa nostra”, ma come una visione che guarda agli altri continenti, dove ci possono essere proposte di interscambi, dove sono possibili modalità di sviluppo differenziato rispetto alle nostre, dove le modalità di pensiero nelle culture non sono soltanto quelle che abbiamo praticato noi.
L’Ulivo ha grandi possibilità in questo senso, proprio perché, a sua volta, è un reincrocio di culture che già nascono da precedenti mescolanze. In questa Europa siamo tutti meticci e sapere che il problema di raccogliere il meglio che ci è stato tramandato su per i fili della storia e della cultura, salva noi dallo schematismo rispetto alle molteplicità multiculturali che giungono sui nostri territori, per dialogare con queste. Questo concetto delle diversità dovrebbe permeare il presente.

Le ultime guerre in medio oriente fanno intravedere due diverse tipologie di dittatura capitalista. Quali ne sono le caratteristiche e le negatività più salienti?

Sussistono alcuni termini che in questo momento sono consumati dalla storia.
È caduto il termine di socialismo reale e contemporaneamente anche altre visioni di un capitalismo che man mano si è configurato come società a sviluppo industriale avanzato con situazioni di complessità che nascevano al loro interno e non erano previste da nessuna delle teorie che avevano fatto da base al capitalismo in quanto tale né alle teorie che gli si contrapponevano. E prima c’era stato un processo che in un primo tempo ha visto il capitalismo diventare strumento di stato all’Est (nei Paesi del socialismo reale).
Quanti capitalismi esistono oggi? Ci sono almeno due modelli tendenziali. Uno a predominio nord-americano, statunitense, l’altro a orientamento più segnatamente europeo: la massimizzazione del profitto è valore assoluto nella prima tendenza mentre un problema di calcolo di quali sono i costi umani che un profitto massimizzato fa pagare alla società, potrebbe essere una caratteristica che segna il capitalismo europeo.
Anche l’organizzazione capitalistica in questo momento non può non pensare che la società in cui si sviluppa va oltre la specificità del capitalismo e che sussiste un problema di socialità, ossia un problema di condizioni di vita che non sono schematicamente finalizzate alla produzione di beni, di servizi e quindi alla produzione di denaro che genera altro denaro. Per un momento – negli anni Novanta – è parso che una via di fuga finanziaristica fosse il modo di risolvere tutto. Per un decennio la finanziarizzazione imposta nella vita quotidiana ha avuto la presunzione di risolvere contraddizioni nuove e antiche dello sviluppo capitalistico; in realtà, poi, si è verificato che non è così e che molti nodi, anche attuali (Enron, Parmalat, Cirio), non sono soltanto un problema di cattiva.
Inoltre quello che si sta facendo evidente – per esempio – nel mondo mediorientale è il fatto che manca una proposta forte sia da parte di chi ha in mente uno sviluppo industriale avanzato pur con molta attenzione alla socialità, alla crescita culturale delle masse e delle persone, allo sviluppo delle culture, sia da parte di un modello capitalistico che ritiene una parte di questi valori del tutto inutili o, al piu, li valuta e li usa come occasione per imporre (ovunque) un “capitalismo compassionevole”.
Questo è lo scontro tra due tendenze che non possono nemmeno essere definite “modelli”: non è, non c’è un conflitto tra dittature, ma tra interpretazioni diverse di un unico sistema economico, intrecciati al quale possono essere pensati e praticati sistemi sociali diversi.

La Shoah ha precipitato l’umanità verso un abietto declino. Cosa occorre attualmente per esorcizzare ogni spettro di genocidio, stillicidio, di conflitto armato e di negazione di ogni tipologia di diversità all’interno della società? Esistono strategie politiche certe e determinate da parte dei partiti progressisti per far fronte a queste terribili evenienze?

In un momento centrale del Novecento, negli anni Trenta, fino alla fine degli anni Quaranta, in una zona storicamente molto evoluta quale era l’Europa centrale, si è sviluppato un fenomeno “culturale” che ha consentito di ribaltare tutte quelle acquisizioni di due millenni precedenti che vertevano su un punto solo, che convergevano sull’affermazione secondo cui le persone sono tali al dì la di tutte le loro caratterizzazioni. L’ideologia nazionalsocialista ha giocato fondamentalmente su questo elemento, in termini di radici. In qualche maniera si è verificato un rigurgito di fondo di tutte le anticulture che, sotto traccia, avevano camminato continuamente, ma nascostamente, mentre si affermava la visione greco romana e il cristianesimo, mentre venivano costruiti ed abbattuti i grandi imperi europei, da Carlo Magno in poi, con tutte le loro tragedie, come le crociate, come le guerre di supremazia in Europa… Ma un filone di fondo affermava che in realtà un uomo vale un uomo; che una persona vale una persona. Sotto traccia passavano, invece, minoritarie ma non scomparse, altre affermazioni, contrarie al filone egualitario: erano le visioni dei settarismi, il superomismo, la volontà di potenza portata fino all’estremo contro l’individuo e la persona.
Nel momento in cui il nazismo comincia ad affiorare, tutte queste contro-culture trovano un modo per eruttare e diventare sistema. Le tappe di affermazione reale del nazismo e i passaggi che determinano la sua ascesa al potere vedono affermato il principio secondo cui esistono figure umane che non sono persone e non sono degne di vivere; vince la visione secondo cui “ci sono situazioni che devono essere messe sotto controllo perché altrimenti faranno il male, in quanto attaccheranno quelle che noi consideriamo le nostre radici che devono rimanere immutabili perché altrimenti verremmo inquinati e contaminati”. Così non appena il nazismo arriva al potere emana una serie di leggi che, prima ancora di essere contro i politici e contro il mondo ebraico, sono contro tutti coloro che vengono considerati sottouomini, ossia contro gli handicappati, i minorati, quelli che vengono tenuti in condizioni di vita assistita e per tutti coloro che vengono definiti “asociali”. Lo Sterminio, con la grande componente interna della Shoah (ovvero dell’Olocausto ebraico) ha dietro questa radice.
Tutto questo ci consente di osservare, in tutto il suo orrore, uno Sterminio che, in Europa, per mano nazista e per mano dei suoi alleati in Italia, in Francia e nel mondo slavo, arriva a toccare circa 12 milioni di persone: di questi 6 milioni sono di appartenenza ebraica. Dall’Italia verso i Campi di sterminio partono circa 44 mila persone, di cui circa un quarto sono ebrei.
Questo significa che sussiste un processo distruttivo che va a colpire in modo particolare il mondo ebraico (e quindi costituisce la Shoah), ma che è più ampio delle dimensioni dell’Olocausto perché va a colpire tutto quello che è considerato diverso e asociale, politicamente difforme e culturalmente equalitario.
Da lì in avanti è stato dimostrato, in modo eclatante, che lo sterminio era storicamente ancora possibile: con metodi moderni e dentro un quadro che rigettasse la democrazia, la convivenza, l’eguaglianza, la libertà di espressione, di organizzazione e di pensiero: quel quadro aveva “tenuto”, aveva fatto proprio, del mondo moderno, solo la tecnica nella sua brutalità. Il che dimostra, per altro, che dittatura e modernità possono convivere benissimo; che non è vero che la modernità cancella la dittatura. Ciò che contrasta il concetto ed il fatto delle dittature è, in realtà, la personalizzazione, il riconoscimento dell’unicità e della irripetibilità di ciascun uomo e di ciascuna donna.
A quel punto, invece, dopo la dimostrazione messa in campo dallo Sterminio perpetrato dai nazisti, sono divenuti possibili nel corso del Novecento molti altri stermini, posti in essere sia nelle zone che noi europei consideriamo “centrali” nella storia, sia in Africa e in Asia; e tutti focalizzati sul concetto di razza che è la negazione dell’elaborazione scientifica moderna, anche anteriore alla scrittura della catena del genoma.
Occorre allora un’espansione, un riconoscimento ed un modo di far procedere il concetto di persona dentro la storia come pensiero centrale.
Spesso per raggiungere obiettivi della storia vantati come “superiori” (il socialismo o l’affermazione del bene e del giusto) ci si poteva anche “sacrificare” o si portavano “giustificazioni” al sacrificio d’altri… Bisogna finalmente dire – come ovvietà – che non è così e non lo è mai stato; che esiste nessun obiettivo per il quale si possano o, peggio, si debbano sacrificare soprattutto altri, ma anche se stessi. Occorre commisurare i passi, gli obiettivi da raggiungere con quello che costa raggiungerli. È necessario un equilibrio nelle scelte.
Rivalutare il concetto di persona comporta il ripensamento di procedure sociali, politiche sociali, di orientamenti culturali così come di orientamenti di ordine concreto… Il concetto di individuo e di persona sono due categorie diverse. La concezione individualistica rispecchia un capitalismo senza orizzonti; la categoria di persona è un’altra cosa: tende dalla realtà individuale verso la socialità.

Quanto la Shoah è figlia del Cristianesimo? (Domanda di Giovanni Sarubbi, direttore della rivista telematica www.ildialogo.org )

Se per Shoah intendiamo quella parte dello Sterminio dovuto alla mano del nazionalsocialismo tedesco e mirato a colpire la presenza ebraica e se vogliamo andare a cercare i fondamenti di quell’orrore in qualcosa che sta a monte del nazismo, direi che sono rintracciabili filoni profondi che stanno alle spalle di tutti i movimenti contrari alla presenza ebraica nel mondo, nella società, nella vita e nella storia: vi è qualcosa che viene da molto più lontano del cristianesimo stesso, e che lo nega in radice così come nega l’ecumenismo, l’illuminismo, la concezione dell’uomo nato dall’antica Grecia. È qualcosa che rimanda al magismo, alle religioni esoteriche, alle culture religiose sotterranee degli inferi vaganti dall’Europa all’Asia. Altro fatto è che vi siano stati logiche e comportamenti, all’interno della Chiesa, che postulavano una pregiudiziale antiebraica (si pensi al concetto di deicidio), approdando, nel corso dei secoli, al discorso dei ghetti, della conversione forzosa, del battesimo imposto … Che da questo si sia sviluppata direttamente una tendenza che abbia condotto agli esiti tragici del nazismo mi pare, quanto meno, improbabile. Che invece il nazismo abbia utilizzato tutto ciò che ha trovato nella storia, quindi anche questa visione, probabilmente è vero: ma è vero nel senso che il nazismo ha utilizzato tutto quel che poteva trovare, in qualunque cultura, o in qualunque cascame culturale, a supporto delle sue politiche contro il mondo ebraico. La molla che ha fatto scattare il meccanismo dello Sterminio è, però, qualcosa di più ampio.
Un’altra questione è il cosiddetto silenzio della Chiesa nel corso dello Sterminio. Qui credo sia utile andare a vedere i documenti che sono stati resi di pubblico dominio non molto tempo addietro, per cercare di comprendere come quello che è avvenuto non debba essere osservato all’interno di un costante e faticoso lavorio diplomatico, svolto dietro le quinte per “salvare il salvabile”: è questo un antico, forse discutibile, e però funzionante approccio della Chiesa, in forza del quale si sceglie il “male minore” quando si è nell’impossibilità ad ottenere il bene. Mentre questo avviene si interpone un lungo silenzio ufficiale. Discutibile – ripeto – e comunque da verificare.
Poi è anche da considerare quanto abbia “pesato” in quella fase di storia della Chiesa nella storia del Novecento – in termini di conoscenza e di percezione del dramma incombente – il periodo e l’esperienza della Nunziatura a Berlino (in una Berlino già nazista) dell’allora cardinale Pacelli, poi Papa … Cosa può aver significato la sua conoscenza diretta della cultura tedesca, la visione di quanto fosse difficile la partita in quegli anni, la percezione delle radici culturali (remote, nascoste …) di quello che stava avvenendo? E c’è da chiedersi cosa sarebbe accaduto se la Chiesa avesse accettato lo scontro duro contro il nazismo, essendo la Francia, il Belgio, la Danimarca … in stato di occupazione e con l’Inghilterra sotto attacco. Di fronte a un Vaticano occupato, gli Stati Uniti sarebbero intervenuti? Di fronte a un Papa sotto scacco, cosa sarebbe accaduto?
Questo è probabilmente un modo sbagliato di fare storia. Non è però un modo sbagliato di porsi interrogativi.

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