La riforma della devoluzione al vaglio referendario del 25 e 26 giugno
Il fronte del NO non ci sta a vedere lo Stato ridotto ad esecutore delle decisioni delle nuove competenze regionali, provinciali e comunali
La critica che si muove è soprattutto sul metodo, poi sul merito. Una riforma costituzionale di tale portata, necessitava di un’ampia convergenza con le compagini di opposizione e riformiste del Paese.
Si contesta invece che, questa riforma, sia stata imposta dalla Lega Nord che ne ha fatto un suo cavallo di battaglia, obbligando Berlusconi ed An a perorarla ad ogni costo pena la caduta del governo. Chi vota NO, lo fa perché teme uno squilibrio dei rapporti di forza del sistema democratico italiano. Teme il “premierato forte”, il potere di scioglimento delle Camere e quello di licenziare ministri da parte del Presidente del Consiglio divenuto Primo ministro. Rifiuta l’idea di un Presidente della Repubblica ridotto a mero cerimoniere. Risulta ostica l’abolizione del doppio passaggio camerale in sede di approvazione delle leggi per via della divisione delle competenze tra Camera e Senato. Senza contare del pasticcio di un Senato federale eletto contestualmente ai Consigli regionali con presenze senza diritto di voto. Il risultato sarebbe quello di porre in essere un criterio discriminante che privilegia le regioni più grandi e popolose. A questa nuova Camera viene accordata una autonomia specifica dei fatti regionali e locali, per esempio, in tema di leggi, ma, allo stesso tempo, l’ultima parola sarebbe affidata allo Stato centrale.
Questo per l’aspetto istituzionale in senso stretto. La pietra dello scandalo è la riscrittura del titolo V della Costituzione a cui sono affidati i rapporti tra Stato centrale ed Enti locali, più comunemente detta “Devoluzione”. Qui si contesta il passaggio di alcune competenze, poteri, oneri, funzioni e doveri prerogativa dello Stato centrale alle realtà locali come l’assistenza e l’organizzazione sanitaria, quella scolastica e la pubblica sicurezza con la creazione di un corpo di polizia gestito a livello regionale. Il rischio sta nella diversificazione di questi servizi tra regione e regione che acuisce il divario tra realtà atavicamente povere e quelle invece storicamente ricche del Paese. Allo Stato resterebbero la gestione della sicurezza sul lavoro, le norme generali a tutela della salute, l’ordinamento della comunicazione ecc. Vota NO a questo referendum, buona parte del mondo riformista che, da un lato, ammette la necessità di intervenire, con miglioramenti, sulla Costituzione, dall’altro, però, si pone il problema di affrontare il progetto con cautela in base alla partecipazione di tutte le forze politiche dell’arco costituzionale, o delle maggioranza di esse. Si paventa, la possibilità di imboccare una strada senza ritorno che mina alcuni aspetti fondamentali su cui la Repubblica ha fatto affidamento negli ultimi 50 anni. Il fronte del NO non ci sta a vedere lo Stato ridotto ad esecutore delle decisioni delle nuove competenze regionali, provinciali e comunali. Non concepisce il “principio di sussidiarietà” che lascerebbe allo Stato presidenzialista solo competenze di carattere residuale. Non accetta, in parole povere, la formazione di regioni-Stato staccate ed avulse dalla gestione unitaria e complessiva del Paese. Il rischio che si intravede, è quello della divisione di fatto del Paese in tante piccole realtà disposte solo a pensare a sé stesse.